jack_torrence 8 / 10 12/10/2010 20:44:58 » Rispondi Nonostante le perplessità che in me innesca il finale (a ritroso su tutta la tenuta dell'opera - ne parlo tra poco), non riesco a non dare 8 a questo film, che alla mia terza visione (successiva alle 2 di Inception), si conferma in tutti i suoi pregi. "The prestige", che possiede una trama esplosiva gestita in modo clamorosamente affascinante, affronta argomenti pesanti. L'ambizione, l'invidia, la sfida; il rischio che tutto ciò si trasformi in ossessione e interferisca in modo a dir poco negativo con gli affetti e l'umanità. Il cinema di Nolan è freddo tanto da apparire disumanizzato. Ma qui, in "The prestige", c'è piena (auto)consapevolezza della disumanità del mondo dello spettacolo. Questo strano mondo dell'illusionismo di fine '800 è trasparente metafora del mondo del cinema: immaginiamo queste (almeno, potenzialmente) le dinamiche tra i professionisti dello spettacolo. E poi quella di Nolan è un'allegoria dell'illusione stessa costituita dal cinema. Non può dircelo più esplicitamente: i cappelli "clonati" che ci vengono mostrati già sui titoli di testa - quei cappelli visti quindi nel loro contesto, nel corso del film - e visti infine mentre la voce off spiega allo spettatore che egli "non vuole capire: preferisce non scoprire il trucco". Il concetto viene ribadito già prima: occorre qualcosa che faccia dubitare: se appare pura magia spaventa; occorre che lo spettatore creda che il trucco vi sia (se non vi è): lo spettatore desidera essere ingannato, vuole che l'inganno vi sia e non vuole sapere qual è. Nolan fa vedere 3 volte quei cappelli, la spiegazione è implicita: eppure lo spettatore ancora non ha capito, prima che gli sia sbattuta in faccia l'ultimissima inquadratura.
Però (e vengo ora a dire come la doppia rivelazione del finale incrini ai miei occhi la tenuta dell'opera) nel finale, il complesso marchingegno oliato dalla ditta Nolan si inceppa in 2 punti non trascurabili. Il primo è di credibilità obiettiva; la notazione è per così dire "tecnica". Nolan ci tiene, alla credibilità. Bene: a me non va giù che il personaggio interpretato da Jackman
nel momento in cui si "clona", abbia sempre il sistema nervoso di colui che non affoga, e non percepisca il dolore e la morte dell'altro, prima che questi finisca di vivere. Il secondo punto è più grave. La figlia di Bale (cui non è stato svelato il trucco...) può credere che colui che gli viene incontro liberato sia lo stesso "uccellino" di prima. Ma noi spettatori, che siamo stati messi al corrente della cruda verità, che possiamo anche sostenere la volontaria resezione di due falangi, non siamo così insensibili da non accorgerci che un uomo è morto.
Per quanto verosimile il personale trucco del personaggio di Bale
, esso è diabolico e difficilmente sostenibile, da un punto di vista psicologico. Il film qui svela tutto il suo limite di raffinata allegoria più attenta però a sfumature esteriori di quanto non lo sia della verosimiglianza psicologica.
Ad ogni modo resta pure un favoloso ritratto di due forme diverse di ossessione per l'illusionismo: quella di Jackman nasce dal desiderio inconscio che lo spettacolo non sia illusione, ma pura realtà (dunque magia); l'ossessione di Bale invece nasce e si sviluppa sull'etica del baro, la doppiezza di colui cui sta benissimo che l'illusione sia inganno, al punto da riuscire diabolicamente a ingannare gli affetti più cari. Due modi diversi di stare al mondo (e al gioco) dello spettacolo.