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ELEPHANT regia di Gus Van Sant

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MexicoCityBluEs     7½ / 10  16/07/2009 21:48:52Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Affrontare artisticamente le vicende di un massacro non è impresa facile, soprattutto quando i fatti non sono ancora protetti dall'ombrello storico del tempo. Ma Gus Van Sant, lo sappiamo, è un regista coraggioso, un uomo che nell'arco della sua carriera ha sempre cercato con astuta recettività il segnale portante della società, quel flusso appena accennato, latente, difficilmente percepibile dallo sguardo, ma che più di ogni altra cosa delinea i contorni della convivenza civile.
Quale miglior terreno d'azione è possibile sondare, da queste premesse, se non la psicologia dell'universo giovanile, il motore della parte sana di ogni società, di ogni essere umano che creda ancora nell'indiscriminato progresso?
Da "Drugstore Cowboy" a "My Own Private Idaho", passando per il controverso e poco riuscito "Last Days", fino a giungere ad "Elephant" e soprattutto a "Paranoid Park" (in cui il nuovo percorso di Van Sant "si compie"), gli intenti del regista americano appaiono inequivocabili.
Quando non ci si pone al di sopra dei fatti, quando non c'è alcun bisogno di giudicare, quando è l'essenza stessa dell'arte che condanna quei deliri d'onnipotenza che bramano il dolore per semplice autorigenerazione del proprio bisogno, allora possiamo parlare di obiettività e riflettere in modo serio sulla strada già percorsa e sui frutti in essa scovati.
In "Elephant" non esiste presunzione di verità, ma una verità presuntuosa la cui prima vittima cade per mano della stessa indifferenza che distorce l'animo del carnefice. In questo risiede la follia di un'umanità privata della propria identità, i cui impulsi primari, per quanto in alcuni casi violenti e spesso contrari ai principi del sentire comune, lottano con l'assurdità e il biasimo della propria, imposta contrazione.

In "Elephant" non è possibile nascondersi; là dove vorrebbero insinuarsi i germi di una facile incriminazione, di una via unica e inequivocabile, Gus Van Sant crea le premesse per un'analisi a tutto campo, un punto dal quale l'osservazione è nuda, come i nostri limiti.
"Elephant" non ci esenta dalla condanna, le premesse della propria "ideologia" il regista le trae dalla morbosità della vicenda mostrata; se questo aiuta concettualmente il film a trovare una via di fuga dal pericolo di una risposta, d'altro canto manca a Van Sant la lucidità necessaria per cementare la visione di una sconfitta culturale, operata per mano di uno spirito malato e psicotico, che trascende la carne del futuro in decadenza dal calore intenso della sacra giovinezza alla disperazione di una volontà alienata.
I punti in meno dipendono soprattutto da questi limiti, dalla reticenza a sfondare un muro di compiacenza oltre il quale la realtà costituita perfeziona il virus di una fasulla inevitabilità.