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ELEPHANT regia di Gus Van Sant

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     7 / 10  12/11/2005 21:03:20Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Come direbbe qualcuno "trattasi di tipico film che manda a casa gli spettatori con la sensazione di aver assistito a un'opera d'arte con la A maiuscola".
Elephant, da più parti venerato come il capolavoro della maturità di Van Sant, è un film contraddittorio, irritante, ma spesso geniale.
La mdp segue le vicende di tanti ragazzi, ai quali Van Sant dà il libero arbitrio. E' una sorta di reality show progettato nello schema di "Blair witch project" che tenta di sposare il docu-drama à la Bowling for Columbine a operazioni giovanil-generazionali tipo "le regole dell'attrazione". I volti dei ragazzi recitano, si dice, spontaneamente senza conoscere il vero script. Meno sperimentale di quanto sembri, e a un passo dal manierismo: Van Sant si diverte a disorientare lo spettatore con spirito beffardo e tonnellate di cinismo, fin dalle prime sequenze. Niente puo' essere lasciato al caso: tra una citazione à la Shining e infiniti piani-sequenza, punta il dito accusatore sulla società, c'è un ragazzo abbastanza antipatico e arrogante "per poter commettere una strage". Mi chiedo: è un modo per rivendicare la neutralità di giudizio, oppure... che altro? C'è il tizio introverso che fotografa i compagni di scuola e le coppie innamorate, un'altro Van Sant, che ama immortalare chiunque e qualunque cosa, perchè l'immagine ha bisogno urgente della spontaneità, della realtà da instant-movie. Ma LUI non ha futuro: l'ultima sua opera resta la fredda celebrazione del massacro, dell'assassinio. L'immagine diventa il viatico di una realtà che si vorrebbe nascondere. Per quasi sessanta minuti è tutto un susseguirsi di esperienze, di personalità buttate a nudo: sono corpi e carni da macello, sono archetipi a cui fastidiosamente Van sant non concede nulla, soltanto uno sterile voyeurismo che scruta ogni prospettiva, salvo il pudore immotivato (da Pasoliniano qual'è) del bacio insolitamente pudico tra i due famigerati assassini. Lo spazio è lasciato in balìa di 300 ragazzi che non devono vivere altra esperienza se non la libertà di essere se stessi. Certo, sembra tutto piuttostro strumentale. La triste vicenda del Columbine School immolata a forma d'arte (di narcisismo?) della scelta formale del suo autore. Come in TO DIE FOR assistiamo pero' a una sottile metafora dei mass-media alla ricerca di una verità che non c'è, ma che possiamo anche confondere. I lunghi corridoi della Columbine School, la mensa, la palestra, sembrano l'imperfetto esempio di una società malata e scoperta. L'istituzione è un rito dal quale è difficile (impossibile?) sottrarsi. E' una prigione senza sbarre, dove due Rambo psicolabili possono tranquillamente entrare senza che nessuno noti la loro presenza: il nemico insidioso è tra di noi, e nessuno puo' fermarlo. Per certi versi Elephant è un film seminale, per altri troppo programmatico e rigoroso per soddisfare appieno. Noi vediamo tanti ragazzi ma sappiamo che di loro si sono già perse le tracce: Van Sant li coniuga li separa li unisce li concilia in un delirio di morte vita e disperazione, indifferentemente tra vittime e carnefici, in pratica confonde le tracce. Non risparmia nessuno, il film, e il capro espiatorio è forse proprio la Columbine School, simbolo inquietante di un modello perduto. Girato con uno stile tra il dogma e il pulp minimalista Elephant non è un film politico, e l'obiettivo è scordarsi di Micheal Moore allo stesso per cui Last days dovrebbe far dimenticare che si ispira (non "si parla di") a Kurt Kobain. Se la vicenda dal quale si ispira è reale, ancora piu' realistica è la mise in scene di un cinema che dà il meglio di sè nel predisporre, almeno in un paio di casi, della concessione libera e autorevole di chi racconta di sè come interprete. La camera fissa insegue spalle e volti dei ragazzi, ma il potere visivo è dato dagli interni ed esterni. Piu' che un simbolo, la Scuola richiama la dimensione retriva e maledetta della letteratura horror eppure tutta questa rientra nella "mostruosa normalità". Per lo spettatore è difficile digerire un'opera che seguoe un rigore filologico/cronologico/temporale tanto lucido e freddo, soprattutto quando poi si assiste inermi alla rappresentazione di vittime e carnefici nello stesso baratro urticante di una società qualunquista votata alla sua distruzione.
Potrei pensare che il regista assuma egli stesso il presidio per unire tutti in un'unico stereotipo, inglobandone la sola esistenza.
Vediamo la stessa Michelle: ragazza complessata e bruttina, osteggiata dalle compagne e condannata alla solitudine: la sua disperazione interiore non è poi quella, assurda e folle, dei suoi assassini. Nel film si parla spesso di diversità, dei disturbi della personalità, del dolore interiore che aumenta, e a mano a mano che l'isolamento di Michelle si insidia anche una parte di me finisce per parteggiare per lei, convinto - e questo è terribile, atroce - che avrebbe tutte le ragioni per ribellarsi anche violentemente al mondo circostante che la rifiuta. Codici che sono nomi, volti che appartengono a domande, ad altre vite. Ma la morte dispensa proprio a lei il primo di tanti giri di vita. Ovvero: Michelle è uccisa da due folli che avevano interiorizzato tutto l'odio che ella stessa provava, e che teneva invero dentro di sè. Michelle è assassinata dagli stessi "diversi" che rappresenta.
La Morte unisce tutti, per una barbara consacrazione della democrazia umana, Il limite del film è nella sua ambiguità strutturale: formalmente scientifico (come il titolo che si rifà a un aforisma buddista) e un po' vile, soprattutto quando si pensa alla scena del massacro che costituisce il perno e l'anello debole di tutta l'operazione: qui manca tutta la tensione attribuita fin troppo assiduamente alla "costruzione cinematografica post-strage" e percio' strategica fino a un certo punto. Si assiste quasi inermi alla rappresentazione di una morte annunciata. La stessa Oklahoma piovosa col suo cielo terso splende - per contraddizione - di un'insolito splendore naivite.

Pertanto, lo spettatore è attirato sempre e comunque dagli aspetti piu' torbidi della vicenda, men che mai da un Van Sant che rifiuta le regole del gioco a chi gli chiede di partecipare al dibattito,e a prendere posizioni morali assolutamente condivise. Eppure non sarà un caso che alla fine io finisco per parteggiare per qualcuno davvero (es. Michelle)?
Gli assassini deviano la loro ribellione in una folle corsa di morte colpendo indifferentemente tutti i compagni distruggendo ogni pur vaga razionalità che in casi del genere è assolutamente deleteria e agghiacciante: è spaventoso che la disperazione possa arrivare a spirali del genere.
Poi mi ricordo di Dennis Cooper e di un libro - notevole - che non ho mai osato finire di leggere - perchè sapevo già il finale, e tutto cio' mi terrorizzava. Elephant è soprattutto un film sulla morte della ragione umana: i protagonisti non esistono, nè prima nè dopo. Un film coraggioso ma furbo, un'esercizio stilistico che guarda "alle spalle degli altri". Che osservi o meno le nuove generazioni dei figli d'America, Van Sant è un vero assassino del suo film