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ENTR'ACTE regia di René Clair

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ULTRAVIOLENCE78     8 / 10  13/07/2009 17:57:29Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
E’ considerato, a ragione, il manifesto cinematografico del movimento dadaista: un’opera estremamente “weird” del tutto priva d’un filo logico, come dimostra –oltre che le immagini stesse- l’impianto “sconnesso” del montaggio. E’ pura libertà artistica, che sembrerebbe ricondursi al concetto “joyciano” del flusso di coscienza, dove tutto avviene secondo un’associazione (apparentemente?) casuale in un divenire “sconclusionato”, che alterna momenti di relativa calma (cfr. le scene in “slow-motion”) ad altre estremamente frenetiche culminanti, in un susseguirsi vertiginoso di immagini, nelle sequenze velocizzate delle montagne russe.
In questo delirio visivo, l’episodio più efficace ed esilarante è indubbiamente quello del corteo funebre: una irresistibile parodia, che principia in “sordina” (con l’uomo che mangia un pezzo di ciambella appeso al carro) per poi aumentare progressivamente di ritmo, fino a sfociare nel colpo di scena finale col mago che esce dalla bara e fa sparire tutti, compreso se stesso.
Rocambolesco, imprevedibile e inintelleggibile, “Entr’acte” (in italiano “intervallo”) fu concepito come intermezzo di uno spettacolo di danza di Picabia e Satie (a loro volta autori, rispettivamente, del soggetto e delle musiche del film): e infatti nel suo impianto, dove le cadenze della musica s’associano a quelle delle immagini, si configura come un vero e proprio balletto costituito di momenti bassi ed alti. Ma un balletto messo in scena in forma completamente parodistica, secondo un intento di base emblematicamente testimoniato dai passi aggraziati di una ballerina, che poi si scoprirà essere un uomo barbuto.
Se lo scopo di Renè Clair e Francis Picabia era quello di dare vita ad un’opera destituita di senso e finalizzata esclusivamente a deliziare la vista e l’udito, beh non si può negare che ci siano riusciti. “Entr’acte” sicuramente non avrà la carica scandalistica e mordace di “Un chien andalou” e de “L’age d’or” o la critica sociale sottesa a “L’uomo con la macchia da presa” (dove la spericolatezza delle riprese si lega a una visione anti-capitalistica del sistema), ma rimane pur sempre un altissimo esempio di libertà espressiva e di spirito ludico, che trovano respiro in tutte le fasi della pellicola: dall’ ”overture” (col movimento autonomo del cannone, seguito dal buffo salto di due personaggi -Satie e Picabia- che, dopo averlo caricato, sparano come a sancire l’inizio ideale del cortometraggio) fino all’improbabile epilogo (in cui la scritta finale viene squarciata da un uomo che cade e, subito dopo, viene calciato e rispedito indietro attraverso il riavvolgimento della pellicola).
Da rimarcare, infine, il notevole apparato avanguardistico-sperimentale del film, sotto il profilo effettistico: dai “ralenti” alle velocizzazioni, dalle sovrapposizioni alle inquadrature capovolte: espedienti davvero degni di nota per l’epoca.