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CALVAIRE regia di Fabrice Du Welz

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Terry Malloy     10 / 10  26/03/2012 22:44:23Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Un film molto difficile da commentare, sicuramente non per tutti.
Difficile perché non siamo di fronte al tipico horror. Siamo di fronte a una storia e a una gamma di temi e una fitta rete di citazioni che lo rendono molto complesso e questo compromette pesantemente la visione di chi si aspettava un mezzo splatter/thriller psicologico-ma-semplice che non inducesse le sinapsi a un sovraccarico di sistema. Il sabato sera con gli amici non si sposa bene con Calvaire. Calvaire è un'inquietante pellicola estrema, è un viaggio estetico in un mondo a parte, un mondo selvaggio.
Più che il solito trito e ritrito è dir poco tema della "follia" (scusate, mi leggo il DSM IV se voglio vedere la follia neh), in Calvaire io ho visto qualcos'altro: il problema dell'identità. Non è la prima volta che si usa l'horror per affrontare (con sempre ottimi risultati) tale nodo concettuale. Sto pensando al Libro IX dell'Odissea omerica. L'incontro tra Odisseo e Polifemo (mostro schifoso). Il situazionismo presentato dall'autore (o chi per lui) è parallelo a quello usato da Du Welz. Il personaggio (nell'Odissea i compagni sono poco meno che comparse, al pari delle pecore e delle capre del ciclope) si ritrova direttamente nella tana del lupo e si FIDA di esso. Ma non dura tanto: Poilifemo comincia a mangiare i compagni, Bartel distrugge il furgone e utilizza il corpo di Marc ai suoi scopi, rivelando l'inimicizia. In entrambi i casi il primo nodo tragico si ha nell'impossibilità del protagonista di fuggire dal luogo infame (come si sa, Polifemo ha sprangato la porta). Ma il duetto distorto non si risolve da solo, ma necessita di un macrocosmo in cui essere inserito: ed ecco entrare in scena la comunità di Ciclopi/Comunità del paese. Essi sono barbari, selvaggi, non hanno leggi, non hanno mogli e figli (anche se la parte giovane del bar solleva molti dubbi) e non sono ospitali, si dedicano a lavori comuni come l'allevamento e vivono isolati sulla loro isola inospitale. La coincidenza col testo del poema è spaventosa. Ciò che mi ha portato a pensare al problema dell'identità del protagonista (su quello di Odisseo si è scritto già tanto) e in particolare della perdita di essa, è una serie di indizi a livello tecnico e ovviamente la stessa sceneggiatura del film:
L'aspetto contenutistico rivela fin da subito alcuni problemi: Bartel ha perso la sua identità di umorista, Maurice ha perso la cagna (che lo tiene forse ancorato al mondo?) e confonde l'identità dell'animale con una mucca, l'identità della moglie di Bartel è contenuta essenzialmente nel suo guardaroba, ma è una figura-spettro. In realtà la moglie di Bartel (e dell'intero villaggio) è proprio Marc. Il regista (grandissimo) si preoccupa di mostrarci parecchie fotografie nell''interno dell'albergo, sono tutti personaggi ambigui e oscuri, nessuna traccia della moglie. In compenso però Marc trasporta alcune istantanee di una bellissima donna in vesti osè. L'identificazione del protagonista in una donna parte proprio da qui (ovvero quando Bartel ritrova le foto). Per non parlare dei costumi scenici da cantante, del fatto che la prima sequenza del film ritrae Marc in incombenze tipicamente femminili (il trucco e l'atto di struccarsi) e del fatto che il suo campo è proprio quello dell'arte (un assioma tipico di una certa mentalità è artista=effemminato/frocio), del canto e del canto d'amore, del fatto che il modo di atteggiarsi (quando canta per Bartel per esempio) e di vestirsi (i dolcevita, i pantaloni stretti) di Marc rivela per lo meno una consistente presenza femminea nel suo io, del fatto che lo vediamo rifiutare il contatto femminile della vecchia libidinosa (la sua reazione è esagerata a mio parere) e dell'infermiera. La natura selvaggia di Bartel, come quella dei ciclopi, si rivela benissimo nel momento in cui scopre le foto: prima delle foto lui trova una settantina di euro e la logica del racconto, per lo meno come la intendiamo noi spettatori, ci porterebbe ad anticipare un comportamento da noi ritenuto normale in questa circostanza: rubare i soldi (l'unica obiezione sarebbe che Bartel vuole curarsi di non insospettire l'ospite, ma essa cade nel momento in cui lo vediamo rubare cellulare e foto e scassinare la porta del furgone). Ma lui li butta via, come se fossero semplici pezzi di carta. Le nostre leggi, quelle di uno stato civile, le leggi sociali della pacifica e buona convivenza non hanno ragione d'essere in questo ambiente, che pare configurarsi come uno stato dentro uno stato. Come i ciclopi, gli abitanti del paese e dell'albergo vivono del poco che offre la terra, non si preoccupano della tecnica (a dir poco irrisorio il fatto che Bartel si offra di riparare il furgone) e di migliorare le loro condizioni di vita. In quest'ottica l'ultimo monito di questa tesi è il telefono staccato, simulacro e simbolo del completo distacco di questi uomini dal mondo cui Marc appartiene, ma da cui è uscito definitivamente per entrare in uno, spietato, folle e brutale. È un parallelo di mondi, ed è un 50 e 50 trovarne uno ostile o favorevole. Odisseo trova i Feaci, ma trova anche i cannibali Lestrigoni. Odisseo entra continuamente in nuove realtà dove lui è Nessuno (ed è proprio il canto lirico uno dei mezzi con cui riesce a re-imporsi come Re di Itaca, come Odisseo figlio di Laerte, quando è alla corte di Alcinoo. Ma la cosa funziona solo perché Alcinoo fa parte del SUO mondo. Cantare in mezzo ai ciclopi non avrebbe avuto senso, anzi forse avrebbe alimentato strani pensieri nella mente di Polifemo). La geografia dell'Odissea concorre a creare questo senso di straniamento del protagonista, presentando un favoloso viaggio per mare (per eccellenza topos privo di punti di riferimento, habitat alieno all'uomo (venite, vi farò pescatori di uomini, ma gli uomini non vivono nel mare!) che vive sulla Terra, e infatti Poseidone è di.o ostile a Ulisse) dove i vari mondi sono rappresentati da isole. Le isole sono luoghi governati solo dalla legge o non-legge del luogo. Non ci sono sovrastrutture, non ci sono garanzie di civiltà. Un'isola raramente è favorevole agli stranieri (penso alla Sardegna, o a Martha's Vineyard) e quindi si erge nella fantasia greca a luogo misterioso, irto di pericoli, ma soprattutto spersonalizzante. Lì è inutile tirare fuori documenti d'identità (e Bartel osserva con curiosità la patente di Marc), il singolo, fiducioso che le sue leggi arrivino ovunque, si ritrova all'improvviso gettato in un Altrove. Un Altrove oscuro e psicotico. Da un punto di vista tecnico, osserviamo un mondo pieno di nebbia. La nebbia confonde, esattamente come in generale le condizioni atmosferiche avverse fanno perdere la strada a Marc. Le fonti elettriche del furgone, non appena sono entrate nel nuovo mondo, smettono di funzionare e ciò è significativo. Du Welz sfrutta i temi e le situazioni tipiche dell'horror per proporre una riflessione nuova e lo fa con maestria, eleganza e potenza descrittiva. Non è la follia il tema del film, la follia è la condizione necessaria. Anche perché follia ha senso in una società che può riconoscerla. Nel mondo di Bartel, è Marc a essere folle nel volersene andare. La follia è una categoria nostra, esattamente come è insensata la critica di Odisseo a Polifemo, sulla sua inospitalità. Essa è mentalità, prerogativa greca, infatti sono i Greci a giudicare quel mondo, ma in esso non ha senso che esista il rispetto per l'ospite o il divieto del cannibalismo. Nel mondo di Bartel si pratica la zoofilia, si segrega la gente e si balla al ritmo tribale e inquietante di un piano. È folle, ma lo è per noi. Infatti Marc comincia col dire "non lo dirò a nessuno", ma finisce col rivolgersi quasi amorevolmente all'uomo che gli domanda "mi hai amato almeno un po'?" (l'amore dunque è un sentimento che va oltre le barriere sociali e civili, è un sentimento primigenio e bestiale?) dicendogli "ti ho amato". Il fucile è lì di fianco, e noi ci aspetteremmo la vendetta da parte di Marc. Ma Marc ormai è entrato nelle logiche di quel mondo e a testimoniarlo è la bellissima scena della cena di Natale tra lui, Bartel e Maurice. Marc piange, ma il suo pianto presto si trasforma nel rantolo di una bestia. Le bestie, onnipresenti nel film. E la telecamera che ruota sempre più veloce per mostrare i tre volti distorti dalla pazzia, coinvolge, NON esclude il protagonista. Bartel non ha torturato l'uomo-Marc (salvo la crocifissione, resasi però necessaria per la sua fuga, e salvo anche il taglio dei capelli, incomprensibile per noi, forse parte del rituale di passaggio?), gli ha semplicemente cambiato i connotati sessuali (e comunque questo è un Calvario. Ma la dimensione cristologica a mio parere non è così presente. Secondo me è più una suggestione del regista dovuta alla scena del crocifisso), agendo sulla sua psiche, invece che sul suo corpo. Bartel è un umorista, nel senso pirandelliano del termine. Sovverte l'identità innanzitutto sessuale di Marc e lo investe di un nuovo entusiasmo (parola catartica nella logica del film).
In ultimo, propongo alcuni aspetti tecnici di questo superbo e maestoso film (che con l'horror commerciale c'entra poco). Quando Marc giunge nel nuovo mondo, Du Welz (forse uno dei migliori registi contemporanei) lo presenta attraverso un raffinato gioco di specchi, attraverso il vetro della macchina. Il protagonista sta perdendo la sua realtà, è lui stesso spettro. Nel momento in cui smarrisce la via del mondo civile, smarrisce anche la sua corporeità, la sua identità, la sua realtà fisica. Du Welz suggerisce con le immagini al cervello dello spettatore, il quale più che ritrovare le presunte citazioni ad altri film contenute nella storia, dovrebbe stare attento a questi aspetti. Il fatto che nella scena sopracitata della cena il regista abbia scelto di inquadrare l'occhio à la Non Aprite Quella Porta è di sicuro un omaggio (e io ci metterei anche Un Chien Andalou), ma può anche voler riflettere l'iniziazione alla follia collettiva del Paese attraverso il primo indice della pazzia di un uomo: l'occhio spiritato. L'occhio, si dice, è espressione della mente, e ormai il rito di ammissione di Marc è completato. È un folle, come loro. Join' us, join' us. Ma ora parliamo del finale: lande desolate. Noi speriamo che Marc ritrovi la via di casa, ma ciò è impossibile. Il suo mondo è perduto e lui può vagare all'infinito per luoghi che di reale hanno semplicemente un monito: l'omaccino crocefisso. La civiltà non esiste più, esiste solo un mondo selvaggio e spietato, del quale ancora Marc non sa di fare parte. L'ultimo uomo viene inghiottito dalle viscere della terra, e Marc lo sostituirà probabilmente come capo del villaggio. La raffinatezza di questo racconto dell'orrore sta proprio nel finale. Il protagonista non ha bisogno di morire. La morte sarebbe una vittoria per noi, sarebbe consolatoria. La raffinatezza sta nella coerenza di un personaggio e di una storia che non vuole raccontare la follia, ma la progressiva perdita di identità di un uomo nella discesa all'inferi di una nuova, completamente sovvertita, realtà e essenza.