caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

BABEL regia di Alejandro Gonzalez Inarritu

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Invia una mail all'autore del commento kowalsky     8 / 10  11/11/2006 22:45:55Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
E' fortissima la sensazione di essere davanti a un capolavoro, ma poi bisogna fare i conti con un finale che divide, ghettizza, reclama un mondo separato tra ingiustizie sociali e sospetta "conciliazione".
Di quel mondo, Inarritu esprime un'enorme "patologia del dolore", ma sembra rassicurarci che presto o tardi non ne faremmo parte, e quasi ci si dimentica, esattamente come nella realtà, di un uomo che ha perduto il figlio ucciso dalla polizia, e di una donna espulsa con un foglio di via dalla cosiddetta "democrazia perfetta" degli States.
Per essere un cinema che inaugura un nuovo linguaggio visivo e tecnico, occorre dire che a tratti è forte la sensazione che l'innovazione sia piu' apparente che reale.
Non è difficile capirne il perchè: se apparentemente è il film che non ti aspetti, se lo spettatore viene sottoposto a un'intensissimo mosaico dei mali del mondo, altrettanto consciamente è messo nelle condizioni di separarsene.
Complice una fotografia che definire splendida è poco (straordinaria la Tokyo filtrata in un gioco abbacinante di luci al neon à la Koyannisquatsi - magnifiche le immagini di certi anziani contadini marocchini, con le loro rughe e un senso infinito di bellezza genealogica), il film di Inarritu ha comunque un pregio difficilmente individuale nel cinema contemporaneo: le tre storie che si svolgono in tre località diverse sembrano magicamente celebrare anche una fortissima empatia con il cinema dei paesi preposti, quasi che l'analisi del regista messicano sia composta da un senso etnico-universale della rappresentazione cinematografica.
A Tokyo troviamo un'apologia della parola e del gesto che puo' ricordare Wong-Kar Wai, in Marocco le immagini fisse e il territorio brullo e silente fa pensare all'Iran di Kiarostami.
Non c'è quella che si reclama come "estetica del deserto" bensì una divisione collaterale tra il deserto oggettivo e quello soggettivo, che è il perno della (mancanza di) comunicazione delle tre storie.
Il "deserto individuale" puo' raggiungere anche lo spazio e il fragore di un disco-club quando il dono della parola non esiste, e la protagonista della storia cerca un contatto nello "spazio aptico" della sua mente.
C'è un deserto oggettivo, e un deserto umano, che è il piu' doloroso, perchè reclama voce al silenzio, al dolore, all'incomunicabilità
Per esempio, una coppia che sembra uscita da "the sheltered sky" di Bowles cerca di ritrovare il contatto perduto dopo un doloroso avvenimento che li ha separati per lungo tempo.
"Babel" vorrebbe assurgere all'affinità universale del dramma, esattamente quanto Resnais nel suo ultimo, bellissimo film, esibisce in pochi e ristretti spazi circolari, e per quanto assurdo possa sembrare entrambi i film sono complementari.
E' ovvio che nel "suo" Messico l'autore sia consapevolmente piu' a suo agio, e non a caso è il posto dove noi occidentali sentiamo di poterci sentire meglio.
Non è certo un paradosso: è appurato che la società di oggi funzioni in modo programmatico, essendo legittimo e prevedibile (certo non dovrebbe neanche esserlo) amare sempre il luogo dove la vita sembra (è?) tanto diversa dalla nostra.

La metafora di Inarritu è forzata, perchè è troppo specifico e forse banale che i contatti tra il mondo capitalista (Usa Giappone) e il cosiddetto "terzo mondo" sia diviso quotidianamente dalle barbare leggi dell'imperialismo (cfr. su tutti i due perni, i turisti occidentali cinici e senza cuore - la violenza della polizia marocchina per arrestare un presunto "colpevole" e quindi per non frenare l'impatto turistico.economico col mondo occidentale).
Lo stesso episodio della ragazza sordomuta è emblematico: non è forse coercitivo il bisogno (per quanto coraggioso e lodevole) di spingere lo spettatore a captare il senso di alienazione del suo handicap?
E ancora, possiamo forse negare che il gesto cosciente di un ricco (giapponese) provochi effetti terribili su un "mondo" meno fortunato di noi?
Dire che la risposta è no, significa accettare passivamente e con un senso di inevitabile fatalismo che questa realtà esiste, ma che non basta invitare noi stessi a riflettere e confessarla.

Stento comunque a credere di essere stato tanto duro: ho trascorso due ore appassionanti e dolorose, il cuore mi è andato piu' volte sottoterra, e quando ha ripreso a battere ha provato un certo disagio per le infinite sfumature che il mondo ci riserva. Un mondo che è aspro e violento come quello di Inarritu, ma che dovrebbe avere la forza di dirci di piu' di questo film.

Potrebbe non bastare, e allora anche un film a modo suo rappresentativo e spesso splendido come quello del regista messicano rischia di perdere la sua forza rivoluzionaria e approdare soltanto nel porto comodo fors'anche doloroso della nostra quotidianità
frine  24/12/2006 01:42:15Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Spero di avere capito bene il tuo complesso e approfondito commento. Tu sostieni, mi sembra, che Inarritu, nella descrizione delle diverse realtà etniche, si è avvalso di modalità rappresentative diverse e attinte alle cinematografie dei diversi paesi. Questo è giustissimo: Inarritu è così 'messicano' quando narra le vicende di Amelia, come è credibilmente 'orientale' quando è alle prese con la silente, inesprimibile disperazione della ragazza giapponese.
Mi sembra, invece, che Inarritu non si dimentichi affatto della sorte tragicamente dolorosa dei personaggi appartenenti al cosiddetto 'terzo mondo', sempre destinati a pagare un prezzo più alto rispetto a coloro che, pur coinvolti in situazioni drammatiche, hanno però la fortuna di provenire da paesi economicamente e politicamente più fortunati.
Richard e Susan ne passano di tutti i colori, e non certo per loro colpa (tutt'al più, un minimo di responsabilità potrebbe essere attribuito al Giapponese, che regala armi con un po' di leggerezza: ma chi, al posto suo, poteva prevedere le conseguenze di tale gesto, di per sé innocente?). Senonché, contro una turista americana ferita, ecco molti poveri marocchini malmenati, umiliati, e forse addirittura un ragazzino incolpevole ucciso. Ovviamente anche la governante messicana subisce un trattamento iniquo, considerando i suoi meriti pregressi.
Inoltre, è significativo che Richard e Susan trovino un po' di appoggio e solidarietà solo da parte dei Marocchini, mentre i colleghi turisti americani se la danno a gambe in modo davvero poco nobile. Insomma, Inarritu si schiera dalla parte dei 'poveri', non tanto da scadere nel manicheismo, ma comunque in modo percepibile.
Così almeno mi è parso...