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AU HASARD BALTHAZAR regia di Robert Bresson

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ULTRAVIOLENCE78     9 / 10  13/09/2009 13:27:55Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Robert Bresson, illuminato da un passo de "L'idiota" di Dostoevskij, decide di mettere in scena una sorta di apologo al cui centro si pone la figura insolita di un asino. E' lui, l'animale più stupido per antonomasia ma in realtà il più saggio e intelligente, l'"idiota" della situazione: sulle sue carni i colpi dell'ingratitudine dell'uomo e, davanti ai suoi occhi, il fluire delle umane vicissitudini, segnate da un susseguirsi di disillusioni, pene, sopraffazioni e nequizie. Si ha così modo d'assistere alla rappresentazione di una realtà in cui non v'è spazio per la felicità, se non in un caduco momento, quello dell'infanzia, che però, una volta superato, si rivela soltanto una dimensione immaginaria, lontana e quasi obliata: un incanto svanito per lasciare spazio a un mondo truce e privo di grazia.
Il personaggio di Marie sembrerebbe la personificazione di Balthazar: nella fissità della sua espressione la stessa remissione, la stessa consapevolezza e la stessa sopportazione che traspaiono dallo sguardo di quest'ultimo. Su di loro grava il fardello di un decorso degli eventi che volge ineluttabilmente al peggio, dove allo sfruttamento del corpo dell'una fa da eco quello dell'animale, entrambi sotto il giogo di azioni umane integralmente negative. Nella loro sottomissione, tuttavia, risiede un'amara saggezza. Pur patendo, l'asino e la ragazza accettano la sventura, coscienti dell'impossibilità di mutare lo stato delle cose: salvo alcuni sporadici momenti di resistenza e insofferenza, essi non s'oppongono a ciò che la vita ha riservato loro, dalle fatiche insostenibili alle delusioni dell'esistenza sancite dalla perdita della purezza, e vi si adeguano consapevoli della loro impotenza.
Questo dualismo nella disgrazia si amplifica sempre più nel prosieguo della narrazione, fino a culminare nel finale dove la "fuga" di lei, a seguito di uno stupro di gruppo, precede quella definitiva del povero Balthazar. A questo punto Bresson inscena la morte dell'animale nella maniera più efficace, cogliendola "sub specie contraria" nel contrasto tra il cinetismo trasmesso dal copioso movimento del gregge e la progressiva immobilità dell'asino, di cui ci viene mostrato il lento (e liberatorio) spegnersi (della stessa portata, per come viene rappresentata la morte, gli epiloghi di "Aguirre furore di Dio" di Herzog e di "King of New York" di Abel Ferrara) in una delle sequenze più struggenti nell'ambito della produzione del regista francese.
Tra gli altri personaggi spicca Arnauld, ulteriore esempio bressoniano della marginalità (o addirittura inesistenza) del libero arbitrio, sopraffatto da "qualcosa" di superiore che esautora ed annichilisce la capacità volitiva autonoma. Neanche la prospettiva di una vita finalmente fuori dalla miseria riuscirà a indurre Arnauld a vincere il suo vizio, cui invece cederà puntualmente fino al termine dei propri giorni. Insomma, ennesimo "soggetto assoggettato" che, insieme al resto dei personaggi della "mise-en-scene", si mostra funzionale alla rappresentazione di un'umanità tragicamente sospinta, nel "suo" agire insensato, dal soffio di una Negatività onnipresente ed inestirpabilmente radicata nell'essenza stessa delle cose. A questo "non-sense" è speculare lo stile narrativo del film, ove la linearità diegetica è abolita per fare posto a ellissi che frammentano l'azione, esaltando così la percezione di un'irrazionalità debordante.
Non siamo ancora ai toni apocalittici de "Il diavolo probabilmente" e "L'argent", nei quali il suicidio ponderato e l'omicidio immotivato costituiscono il punto terminale della riflessione dell'ultimo Bresson, comunicata attraverso una "fenomenologia impietosa e senza speranza della malvagità"; pur se nell'opera in questione il pensiero pessimistico del regista risulta già ampiamente ed efficacemente enucleato, trovano ancora spazio elementi quali il lirismo e la compassione. E a quest'ultimo proposito, non si può non rimarcare l'immagine bellissima dell'asinello i cui occhi tristi, pazienti e tolleranti trasmettono tanta tenerezza e una sconfinata saggezza. Attraverso di essi il regista si limita a registrare gli eventi senza emettere verdetti, perché non si può giudicare lo scorrere eteronomo della storia/Storia.