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THE HOURS regia di Stephen Daldry

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kafka62     7 / 10  28/02/2018 09:45:30Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Qualcuno deve morire, per far sì che gli altri possano apprezzare la vita". "E chi deve morire?" "Il poeta deve morire, il visionario". A suggello di questo dialogo, tre suicidi o tentati suicidi ricorrono nel bel film di Stephen Daldry: quello realmente avvenuto di Virginia Woolf, annegatasi nel 1941; quello del poeta malato di AIDS Richard, ai giorni nostri; e infine quello, non consumato, di Laura (che scopriamo più tardi essere la madre di Richard), nel 1951. Il filo rosso che lega tra loro i suicidi, e i personaggi che li circondano, è un romanzo, "La signora Dalloway", un libro in cui la Woolf ha cercato di raccontare l'intera vita di una donna in ventiquattro ore: un romanzo sperimentale, diventato un caposaldo della letteratura del Novecento, così come sperimentale appare "The hours", che mescola con virtuosistica abilità tre epoche diverse per distillare, senza retorici proclami e senza colpi di scena spettacolari, una non facile morale. Che questa morale non sia facile lo si capisce dal senso di disorientamento che coglie lo spettatore al termine del film. Per chi, o per cosa, è morta Virginia, per chi Richard? E perché Laura, così come Clarissa Dalloway, non deve morire? La risposta sta nelle frasi, praticamente identiche, che pronunciano Virginia e Richard prima di togliersi la vita: "non avremmo potuto essere più felici di come siamo stati". Ciò che avevamo una volta, in gioventù, considerato una promessa di felicità futura, e che alla luce di come sono andate le cose è diventata, per non aver rispettato le nostre aspettative, fonte di delusione, era già, essa stessa, felicità: è proprio questa consapevolezza che i poeti – al tempo stesso vati e agnelli sacrificali – vogliono affermare con la loro morte esemplare. A chi sopravvive, a Leonard, a Laura, a Clarissa, non resta che cercare di comprendere e accettare questa filosofia di vita: sia pure con dolore e con fatica, sia pure (come la signora Ramsay di "Gita al faro") con gli occhi del ricordo e del rimpianto.
"The hours" potrebbe essere scambiato per un film da signore: intellettualismo e alta letteratura, arte e vita, AIDS e amore saffico, e in più tre attrici del calibro di Kidman, Moore e Streep a giganteggiare sullo schermo. Ma in esso c'è ben altro: quella sotterranea inquietudine che alberga negli animi di tutti i personaggi, e che viene fuori solo a sprazzi e per ellittiche epifanie (splendidamente contrappuntata dalla nervosa e sottilmente angosciante musica di Philip Glass), è qualcosa che ci tocca tutti troppo da vicino per confinarla nell'esercizio di stile fine a se stesso. Sotto gli abiti vittoriani di Virginia, le acconciature anni '50 di Laura e gli ambienti neo-esistenzialisti di Richard, uniti da un montaggio sapiente e calibratissimo, si nasconde infatti la sempiterna, frustrante, esaltante, incoerente, fiduciosa, balbettante, eppure sempre necessaria, quasi doverosa, ricerca del senso autentico dell'esistenza.