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MATRIX RESURRECTIONS regia di Lana Wachowski

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Filman     9 / 10  24/01/2022 13:09:40Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Sono stati pochi i ritorni artistici di questo tipo, pochi quelli cinematografici almeno. Sono statisticamente promettenti, tuttavia, questo tipo di operazioni. Vent'anni sono un periodo di stagionatura sufficiente per dimostrare a tutti la solidità temporale della stessa opera. E pur senza il bisogno di una controprova, arriva il quarto capitolo di Matrix, che non ripudia un solo nanosecondo di quella bipolare trilogia scritta e diretta dalle Wachowski a cavallo del nuovo millennio.
L'autoreferenzialità non è mai stata prerogativa delle due sorelle, data la loro forte e trasparente impronta pop. Eppure tutto il primo atto e altre sequenze successive sono un tripudio auto-riflessivo, una teorizzazione della stessa operazione commerciale, anche meta-produttiva, che ricicla e si auto-cita. Se il primo Matrix rifletteva filosoficamente sulla realtà, Matrix Resurrections riflette filosoficamente sulla sua realtà, suggerendoci la soluzione con l'inserimento dell'estetica di Matrix all'interno di questo nuovo contesto, così da prendersi gioco non solo di Keneau Reeves, ma anche di noi. Addirittura, senza timidezza, Lana Wachowski supera lo stesso concetto di metacinema riportando l'extra-cinematografico all'interno del film, con il programma di Matrix che impara ad usare il "bullet time", migliorandolo.
Sembra sostanzialmente che, come un virus, la trilogia di Matrix sia entrata in questo film del 2021 e quindi nella nostra realtà. E viceversa. Si può appurare (peraltro con pochi dubbi) che, con questa nuova teoria di specchi, il modello dicotomico del reale e del non reale appartenente al capolavoro del 1999 venga superato in complessità e in inventiva. Nella maniera migliore. Nell'unica maniera possibile, forse.
Coerentemente in Matrix Resurrections troviamo anche frammenti di Matrix Reloaded e Matrix Revolution, e quindi tutte le loro scorie tribal, cyber-action e fantasy/space opera, ovvero quei caratteri che in maniera molto rude cambiavano (e cambiano anche in questo quarto capitolo) registro al film, rendendolo bipolare a livello estetico, concettuale e di genere, un bipolarismo che abbiamo scoperto essere parte integrante del cinema delle Wachowski, in "Cloud Atlas" (2012), che di generi ne aveva addirittura 6. Difficile dire che un elenco di idee pop non originali e non perfette, nella loro epicità mancata, fosse un valore aggiunto ad un racconto all'insegna del metropolitano e del digitale. Ancor più difficile dirlo oggi, dove tutto questo mondo distopico cyberpunk con sprazzi di fantasy puro, fedele alla trilogia, ha il gusto di una recente moda passata, e passata anche piuttosto velocemente. Nello specifico: tutte le parti interessanti, innovative, intriganti, stupefacenti e intelligenti sono ambientate all'interno della realtà simulata Matrix; tutto ciò che non lo è, sta nell'altra realtà. Potrebbe essere una coincidenza. Ma non lo è.
Al di là di quello che era l'unico vero difetto della trilogia originale e, sempre coerentemente, di questo nuovo capitolo, ci troviamo di fronte ad una soluzione visiva dietro l'altra, una serie di invenzioni legate in un'estetica action espressionistica e con un preciso marchio di fabbrica, non coniabile. Trattasi tra l'altro di un'opera sensibile e assolutamente personale, diretta da chi sa perfettamente come rappresentare la sensazione di chi sospetta di vivere una vita e un corpo non propri, al limite della pazzia e del vuoto sotto.
Ma soprattutto stiamo parlando di un blockbuster hollywoodiano che analizza costruttivamente e attraverso sé stesso la stessa idea di blockbuster hollywoodiano, cosa che solo "Ready Player One" (Steven Spielberg, 2018) era stato capace di fare. La differenza è che, nel caso di Matrix Resurrections, si tratta proprio di un film facente parte della categoria sequel/reboot/remake che nasce forzando la sua stessa natura, giocandoci e girandoci attorno. Un evento artistico che ottimisticamente potrebbe essere importante ma che a prescindere rimane peculiare e che non può non avere in sé la definizione di capolavoro.