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CHICAGO regia di Rob Marshall

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     7 / 10  20/08/2005 01:51:20Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Che cos'è un luna-park, se non quel giorno vorticoso che poco dopo ci riporta amaramente a terra? O un circo, se non l'enfatizzazione di uno
stupore ancestrale, sciorina la grandeur della finzione nell'ingenuità di un pubblico pagante? O un musical, la summa di tutto, la realtà trasfigurata di corpi che stringono addosso la rappresentazione della loro gloria? Da Broadway a Chicago, da Ziegfield a Berkeley, da Fred Astaire a Donen fino al successore di tutto, Bob Fosse... La magniloquenza di Marshall è moderna e anacronistica al tempo stesso, quasi irritante, talora sublime, altre volte ancora fredda, professionale, e insostenibile. Eppure (tutto) si muove. Eros e Thanatos si incrociano tra le ammiccanti congetture scenografiche dove cultura Camp e celebratismo di massa (certe guepiere old fashioned che vorrebbero tornare cool!) , gay(a) culture/coscienza (nello stile "prototipi maschili della danza, il tipico vilain, il perdigiorno Milleriano, etc.) e il predominio assolutista e illiberale delle luci al neon degli studios Hollywoodiani. Stilisticamente eccessivo e ridondante finchè si vuole, almeno quanto un elefante per la parata di un principe indiano, Chicago è la rappresentazione univoca ed equivoca di un deja vu aprioristico, tendenzioso
in quanto qualunquisticamente calligrafico. Le ballerine potrebbero essere le stesse di "Striptease" di Verhoeven e nessuno ci vedrebbe la differenza.
A un certo punto è come se vedessimo il "nostro" Don Lurio tra tapsters e voli pindarici, nel glamour pur così represso degli show televisivi italiani di Antonello Falqui nella Rai di decenni fa. Uno sfavillio di facciata, con i suoi tacchi a spillo, i trucchi, le macchiette, i ricchi premi e i cotillons. Ma in realtà nulla è lasciato al caso: ogni sequenza, soprattutto quelle ballate e cantate, riveste una sua logica, e la lavorazione del film avrà sicuramente avuto i suoi tempi lunghi almeno quanto i mezzi dispendiosi utilizzati nel film Già vediamo le lacrime dei comprimari, la stanchezza fisica di corpi "caparbi quanto basta per rivelarsi", l'estenuante fatica di una sequenza girata piu' volte: fa tutto parte del musical, che per qualcuno - tanto per cambiare - cfr. Altman- è la vita. 13 grammy di candidature e diversi premi vinti lo dimostrano. Ma è davvero un merito?
Marshall ci accoglie in questo helzapoppin' del XXI Sec. con la pretesa di raccontare l'epopea di una città-simbolo, senza capire che proprio dal
simbolo dovrebbe avere la forza e il coraggio di privarsi. Non c'è vera ironia nel suo progetto, ma una conturbante rievocazione cinefilè forse sì, culto e mito della città a cui l'opera è dedicata, o di ben altro (degli abiti degli stilisti, della propagandistica arma / piega del veicolo
pubblicitario) Sarà un caso che l'aspetto piu' interessante del film sia ancora ad uso e consumo del marketing (i capelli della Zellwegger, l'hair
styling della conturbante Z- Jones a metà strada tra Louise Brooks/lulù e Cyd Charisse). C'è molto Bob Fosse, è vero: le fasi che hanno portato alcune donne all'omicidio, o anche quando - in una sequenza di cattivo gusto tanto esibito da sfiorare il sublime - l'autore muove le danze di un Gere ventriloquo attorniato dalle ideali figure-fantoccio: provocazione legittima, come certi sconvolgenti richiami anatomici di "All that Jazz" (ma il personaggio di Scheider aveva una profondità ben superiore a quella di Gere). Ma alla fine funziona: funziona questa galleria di personaggi, un Gere simpatico quanto basta come avvocato truffaldino e sciupafemmine, una Zellweder blandamente scipida come una Marilyn dei poveri, anche se assai cinica, una Z- Jones che dà davvero il meglio di sè. Senza dimenticare l'indimenticabile Mame di Queen Latifah (non a caso titolo, "mame" di un celebre musical di successo) impagabile e materna "tenutaria" del carcere.
Misogino? Abbastanza per attrarre folle impensabili Omofobo? Giusto per sovvertire l'ordine di un clamore. Notevole nella sua decadenza (lo spettacolo è anche decadenza) immortale, Chicago ha il suo vertice nel numero "Cellophane-Man", dove il consorte della Zellweger presenta trucchi e movenze vicinissime al grande W.C. Fields, storico attore degli anni venti e trenta. E per quanto si sforzi di rovesciare il circo equestre dello show - biz in qualcosa di concreto e coraggioso (l'ambiguità della stampa, la petulanza dei press-office come ai tempi di "tutta la città ne parla") l'equivoca sovversione del Mito = Fama in un meccanismo efebico e amorale, resta un esercizio stilistico compiaciuto e un po' noioso, comunque visivamente straordinario Certo molto meglio dell'insopportabile operazione di restyling di Moulin Rouge ai cui fan va tutto il mio supporto e la comprensione. Il Simbolo rimane, omologazione di un circuito che è ricostruzione di un Sogno, o di tutto cio' che vorremmo che fosse la realtà, anche la piu' dura.