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CRISTO SI E' FERMATO A EBOLI regia di Francesco Rosi

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ULTRAVIOLENCE78     8 / 10  28/05/2008 18:59:48Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il romanzo di Carlo Levi si configura quasi come un trattato socio-antropologico su una popolazione che da sempre ha vissuto in una dimensione primordiale e "selvaggia" lontana dai canoni e dalle regole della società "civile", dalla quale è sempre stata nei secoli vessata, razziata e depredata. La civiltà rappresenta proprio un mondo, ordinato sulle prevaricazioni, che non si è mai integrato col sostrato contadino lucano, ma si è imposto su quest'ultimo spogliandolo della sua terra e, di conseguenza, della sua dignità, e sottoponendolo a indicibili umiliazioni e angherie. I "visitatori invasori" sono sempre stati, pertanto, i depositari ideali di una storia, che la gente indigena di quei "lontani luoghi" narrati da Levi non ha mai sentita come propria: essi non sono mai stati gli artefici della propria storia, ma solo gli spettatori impotenti di una lunga e tormentosa sequela di eventi determinata sempre dall'altrui volontà. A partire dalla passate conquiste (descritte dall'autore come fossero frutto dell'agire di una beffarda Fortuna) fino all'installazione del regime fascista, la mano dell'uomo civile non è mai stata benevola con la società contadina, ma sempre crudele e indifferente alle esigenze di questa. Per tali ragioni, la cultura e soprattutto la religione della civiltà sono sempre apparsi agli occhi di questa arretrata comunità come qualcosa di distante e infausto, che non si è mai tradotto per essa in un sostaziale benessere bensì in una continua e insostenibile oppressione. Di qui la metafora del Cristo che si è fermato a Eboli, che sta a testimoniare l'assenza di D.io in una terra che ha soltanto conosciuto vessazioni e depredazioni, dalle quali sono conseguiti il fenomeno del brigantaggio, come disperata ribellione alla storia, e il radicamento sempre più profondo della credenza nei riti magici pagani come forma di devozione al soprannaturale.
Il film di Rosi ripercorre egregiamente le pieghe del romanzo di Levi, dando spazio alla condizione di un'umanità martoriata dal Tempo, immortalandola all'interno di un quadro ambientale presentato in tutta la sua durezza ma anche nel fascino della sua atmosfera ancestrale. Buona anche la riproposizione delle riflessioni dello stesso Levi, interpretato da un compassato ma espressivo Volontè che, a mio avviso, nel momento dello schiaffo alla "serva" Giulia trova il suo momento recitativo più intenso e pregnante, che assurge a emblema dell' inveterato istinto prevaricatore dell'uomo "moderno" sulle masse contadine.