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SALVATORE GIULIANO regia di Francesco Rosi

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Woodman     9½ / 10  28/07/2014 23:36:05Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Visto interamente al Cinema Ritrovato di Bologna, da me recensito per "Cinefilia ritrovata", il capolavoro di Rosi costituisce sicuramente la più alta e mai più raggiunta tappa della sua carriera.
Un film che supera decisamente i tradizionali confini del Cinema cronachistico/di denuncia, e pur essendo imperniato sul sociale, genere che solitamente rifuggo e nel quale credo poco, è riuscito a sbalordirmi e a coinvolgermi ininterrottamente.

Parlare di Salvatore Giuliano oggi significa riconoscerne l'assoluta potenza visiva, la matericità e il senso plastico delle sue immagini abbaglianti, la profondità e la capacità, ormai estinte, di fondere grandissimo cinema con un'acutissima, neutrale e sentita denuncia. Molto più che un film politico, molto più che un film sul sociale. Il capolavoro di Rosi si accosta alla pittura naturalista/realista franco-italiana post romantica, quindi sbalza, supera i convenzionali confini della gabbia cinematografica, le scene parlano attraverso l'immagine pura, ciascuna di esse è una veduta amarissima e terrorizzante della Sicilia anni '40, un dipinto macchiaiolo di convintissima imitazione, riproduzione. Sembrerebbe ma non è un documentario, Salvatore Giuliano, bensì un affresco monumentale ricco di momenti lirici e frastornanti, scioccanti, annichilenti.

Rosi non si schiera, apparentemente, cerca piuttosto di imprimere sull'immagine una fetta di storia italiana di cui ancora oggi si parla pochissimo, di farle assumere cioè una valenza comunicativa imponente e destabilizzante. Parlare con l'Arte, comunicare attraverso l'immagine: il capolavoro di Rosi è una delle massime espressioni di questo intento. La coniugazione forma-contenuto, con doppia funzione (mantenere la comunicazione facendo cinema puro), trova qui uno dei suoi massimi esempi. Moravia è arrivato a definire "realismo epico" lo stile di Rosi, che per l'appunto è tale in virtù del lavoro a tre teste del regista: Rosi opera in bilico fra il giornalista (dirigendo gli interpreti -esclusi Wolff e Randone tutti non professionisti-, facendoli parlare, scegliendo cosa far loro dire), il regista (dirigendo l'orchestra delle formalità e della cornice, la volontà di comunicare, con le perfette soluzioni tecnico visive quali le sconnessioni temporali e la scelta di tre tipi di bianconero) e lo storico (ricostruendo passo per passo questa pagina di storia siciliana con meticolosità e cura estrema).

Questi tre ruoli si rivelano indivisibili: il Rosi regista sceglie di non mostrare quasi mai il personaggio di Giuliano, quasi mitizzandolo, conferendogli un alone di romanticismo nel mostrare la sua ricerca dell' indipendenza non solo sociale, nell'abbandonare ogni cosa e andando sui monti, mostrando una certa ambiguità, "tradendo" lo spettatore che rimane perplesso dinanzi alle molteplici facce del mafioso, ritrovandosi dinanzi al tradizionale binomio eroe/assassino. Il Rosi storico accompagna per mano lo spettatore attraverso la pazzesca ricostruzione di un mondo arido e violento, popolato da mostri che diventano vittime, e vittime che rimangono vittime. E qui si incontrano lo storico e il regista, nella sublimazione visiva della ricostruzione della Prima strage dell'Italia repubblicana, la porta che aprì alle guerre con la mafia. Restituisce cioè l'impatto mediatico che ebbe allora l'evento, con la perizia dinamica e solenne del grande regista e con la meticolosità e la ricerca del vero del grande storico. Il Rosi giornalista, infine, dà i necessari tocchi di colore al tutto, con la scelta e la direzione degli attori, che si agitano entro confini sempre più stretti, dai paesaggi alle vie opprimenti dei paesi, dalle stanze buie alle gabbie di prigione, con furia animalesca (si pensi alle donne che scendono in piazza, alle urla di Pisciotta in tribunale o nell'indimenticabile finale), a voler dar corpo a un universo popolato da insetti annaspanti in una pozzanghera di dannazione. Ma, per l'appunto, al di là dell'inchiesta, al di là del reportage, Rosi tocca vette insospettabili al tempo.

Almeno due momenti memorabili: la madre di Giuliano all'obitorio, come una lupa sul cucciolo, come una Maddalena piangente ai piedi di Cristo (ritorna la pluralità di riferimenti imponenti e sacri incarnata da Giuliano), e la magnifica scena della sua uccisione, colto di notte con la collaborazione di più parti, con un taglio visivo espressionista che tocca il mitico, sicuramente visto e amato dalla Bigelow, recuperato e attualizzato con gli attuali mezzi per il suo grandioso "Zero Dark Thirty" (la lunga scena della cattura di Bin Laden recupera la tensione, l'inquietudine e la levatura fantastica/epica che aveva quella dell'uccisione di Giuliano, ed inoltre in entrambi i film l'autore non mostra mai il "protagonista", rifuggendo ogni posizione netta, riportando con la perizia artistica tipica dei naturalisti ottocenteschi pezzi di storia dell'uomo da non dimenticare).

Martin Scorsese, incontenibile amatore del Cinema Italiano, considera l'opera di Rosi uno dei suoi film preferiti nonché uno dei più influenti per la sua produzione, e ha supervisionato il restauro della Cineteca di Bologna.

Salvatore Giuliano originariamente doveva intitolarsi "Sicilia 1943-1950" ed infatti altro non è che un mosaico di eventi che hanno attraversato la Sicilia, lasciandovi solchi e un'irriducibile scia di sangue, e rimane una pietra miliare del nostro cinema, non soltanto a sfondo sociale.

Capolavoro.