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APOCALYPSE NOW regia di Francis Ford Coppola

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kafka62     10 / 10  27/02/2018 14:40:58Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Che dramma eterogeneo! – Oh, sta sicuro / non sarà dimenticato! Col suo Fantasma inseguito più che per sempre, / da una folla che non lo afferra, / attraverso un cerchio che sempre ritorna / allo stesso e identico posto, / e molta Follia e ancora più Peccato / ed Orrore l'anima dell'intreccio." (E. A. Poe: "Ligeia")

La prima immagine di "Apocalypse now" è quella, immobile e indifferente, di una rigogliosa foresta tropicale. Il paesaggio sembra da cartolina turistica, ma gradualmente, per piccole ed impercettibili sfumature, esso cambia completamente aspetto: sagome di elicotteri passano davanti all'obiettivo come inquietanti uccelli notturni, fumogeni colorati offuscano la vista, le dolenti note dei Doors si levano a coprire il rumore delle pale turbinanti. Quando la voce di Jim Morrison pronuncia la fatidica strofa "This is the end", la palme, quasi obbedissero a una misteriosa parola d'ordine, si incendiano di colpo tutte insieme e le fiamme, simili a silenziosi fuochi d'artificio, riempiono in breve tempo l'intera inquadratura. La potenza e la bellezza di questo incipit dovrebbero dare motivo di riflessione, e finanche far mutare opinione, a coloro che sono convinti di denunciare la disumanizzante brutalità della guerra semplicemente mostrando immagini di bombe e distruzioni: perché esse evocano sì la morte, la devastazione e l'orrore, ma suscitano anche, inconsciamente (almeno fino a che si mantiene una certa distanza emotiva), un indescrivibile sentimento di fascino. Certo, di fronte a certi documentari sulla guerra nella ex Yugoslavia o in Iraq si ha l'orripilante sensazione di assistere a una rappresentazione dell'inferno in terra, ma se e quando Greenaway deciderà di girare il suo "Inferno di Dante" in 70 mm. capiremo senza più ombra di dubbio come le bolge degli inferi siano molto più seducenti (almeno dal punto di vista cinematografico) delle angeliche sfere celesti. Senza bisogno di riesumare Marinetti, non si può non convenire con la teoria che tutti i film di guerra sono, indipendentemente dal messaggio che si vuole lanciare, involontarie esaltazioni della guerra. Basti pensare alla spettacolare sequenza della "Cavalcata delle Walchirie", così straordinaria e trascinante, fantasmagorica e rutilante, da farci quasi del tutto dimenticare la strage di vietnamiti che esso provoca. E' su questa ambiguità estetica – l'orrore come oggetto di piacere, il napalm come effetto speciale – che si regge il film di guerra in genere, e quello di Coppola – fondato oltretutto, come vedremo più avanti, su una iperspettacolarizzazione del reale – in specie. Come ha detto lo sceneggiatore Milius in un'intervista, «quando lo si è iniziato, Apocalypse Now… era un film sulla guerra come manifestazione assolutamente naturale per l'uomo… E' un soggetto affascinante. Chiunque abbia studiato la condizione umana è affascinato dalla guerra. Come diceva Patton: "Qualsiasi impresa umana appare senza dubbio insignificante al confronto della guerra". E' incredibile questo slancio verso l'autodistruzione, quasi come un godimento sessuale. Forse sta a significare la straordinaria liberazione di energia, ma al medesimo tempo anche la sua totale inutilità, la sua totale assurdità».
Dalla rappresentazione della guerra come orrore alla sua figurazione come follia il passo è breve. La follia è infatti la seconda, fondamentale costante tematica di "Apocalypse Now". Non si tratta della follia ghignante e beffarda dei personaggi del "Dottor Stranamore", e neppure di una insania moralisticamente intesa come devianza dalle leggi umane e sociali, bensì di una sorta di alterazione psichica e comportamentale dell'uomo-soldato costretto a una troppo lunga ed intensa esposizione all'orrore: l'orrore come droga, insomma, e la follia come tossicodipendenza. Non c'è quindi, a mio avviso, nelle sequenze più alienate e assurde di "Apocalypse Now" un vero e proprio giudizio etico su chi dirige la guerra e chi la combatte, così come a tutta prima un simile giudizio non può emergere alla vista del "Trittico delle delizie" di Bosch, per fare solo un esempio non casuale. Esemplare è la scena in cui facciamo per la prima volta la conoscenza del colonnello Kilgore. Nel villaggio appena conquistato dai suoi uomini la confusione è totale: soldati che si muovono in tutte le direzioni, civili vietnamiti che si cerca di evacuare, elicotteri che atterrano in continuazione e mezzi da sbarco che emergono dalle acque del fiume come mostri antidiluviani, grida di moribondi e rumori assordanti di eliche; c'è persino una pretenziosa troupe televisiva venuta fuori da chissà dove (si intuisce qui l'intenzione di Coppola di prendere in giro gli pseudo-documentari di guerra e la loro stolida pretesa di autenticità); al culmine della sequenza, in un'atmosfera da neo-Medioevo, un enorme bue viene sollevato in aria da un elicottero, mentre nelle vicinanze un gruppo di soldati recita stancamente il "Padre Nostro". Oltre che un montaggio e un sonoro da antologia, la scena mette in risalto l'assoluta insensatezza, la perfetta gratuità della guerra, ma non nel senso che a questi termini potrebbe dare una propaganda pacifista, bensì in quello di istintualità primordiale, di energia primigenia e perciò quasi di necessità biologica per l'uomo di combattere. In fondo il personaggio di Kilgore, per lo sconsiderato sprezzo del pericolo, per il fanatismo che lo porta ad attaccare un villaggio vietcong al solo scopo di poter fare il surf nelle acque della zona (sua è la battuta migliore del film: "Charlie non fa il surf!"), per la nostalgia dell'"odore di vittoria" del napalm, per la malinconica consapevolezza che "prima o poi questa guerra finirà", prefigura già il colonnello Kurtz, anzi egli è un Kurtz in potenza.
Dopo Kilgore, Coppola aggiunge altri anelli alla lunga catena della follia: lo show delle conigliette di Playboy alla base di Hau Phat, che si conclude anzitempo con un precipitoso fuggi fuggi delle discinte ragazze di fronte all'assalto dei militari eccitati, l'avamposto di Do Lung, in cui i marines superstiti ricostruiscono ogni giorno il ponte col solo risultato di vederselo distruggere la notte successiva dalle bombe dei vietcong. Man mano che va avanti, il film fa tabula rasa di ogni schema logico, costringendo lo spettatore ad entrare in una no man's land di intangibile irrealtà, in cui la razionalità è bandita, la guerra diventa fine a se stessa e in un certo senso viene astrattizzata, metafisicizzata, depurata da qualsiasi motivazione contingente: è con queste premesse che, dopo ben un'ora e mezza di film, viene introdotto il personaggio di William Kurtz.

"L'uomo è una corda tesa tra l'animale e il Superuomo, una corda sopra un precipizio… egli è un transito e una catastrofe" (F. Nietzsche: "Così parlò Zarathustra")

Con l'entrata in scena di Kurtz, l'ambiguità da estetica diventa, per così dire, interna al film. Di "Apocalypse Now" Kurtz è infatti, al medesimo tempo, l'angelo sterminatore e l'agnello sacrificale, la luce e la tenebra, la saggezza e la follia, la grandezza e il punto di rottura. Per di più, mentre il suo titanismo di stampo nietzschiano degenera fatalmente nella fanatica idolatria della tribù che lo venera come un dio vivente, la sua sfrenata vitalità cela dentro di sé un inconscio desiderio di autodistruzione e di morte. Se da una parte tornano alla memoria film come "L'uomo dei sette capestri" e "L'uomo che volle farsi re" (entrambi di Huston, ma nel primo c'è non a caso lo zampino di Milius come sceneggiatore), per il fatto che in entrambi il protagonista si ritrova a vivere in una cultura primitiva in cui diventa una leggenda o un dio, è però con l'originale conradiano che il Kurtz di Coppola deve fare i conti. In "Cuore di tenebra", Kurtz è colui che ha avuto il coraggio di cedere alla fascinazione degli istinti primitivi, alle forze tenebrose dell'irrazionale, simboleggiate dalla selvaggia natura africana: "Penso che gli debba aver sussurrato certe cose sul suo conto delle quali mai aveva avuto il sospetto, cose di cui non aveva idea alcuna prima di prender consiglio da quella immensa solitudine – e quel sussurro aveva esercitato su di lui un fascino irresistibile. Gli aveva svegliato dentro degli echi fragorosi, perché egli era vuoto nell'intimo…". Analogamente, in "Apocalypse Now" Kurtz ha compiuto il gesto proibito, ha guardato cioè negli occhi l'orrore puro e senza limiti, riconoscendovi la propria metà oscura e consegnandosi interamente alla sua barbarica seduzione: "L'orrore ha un volto e bisogna farsi amico l'orrore. Orrore, terrore morale, sono tuoi amici, ma, se non lo sono, sono nemici da temere". L'amoralità della guerra di Kurtz ("Bisogna avere uomini con un senso morale e che allo stesso tempo siano capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere, senza emozioni, senza passione, senza discernimento") fa emergere, per contrasto, la falsità degli stati maggiori dell'esercito, l'ipocrisia insita nelle guerre sante condotte in nome di valori come giustizia, libertà, democrazia e progresso. Kurtz non è meno assassino dei generali che ordinano di radere al suolo un villaggio nemico, le teste mozzate che ornano il villaggio e i cadaveri penzolanti sul fiume non destano più indignazione dei vietcong uccisi dal napalm: la differenza è che Kurtz ha deciso di gettare via la maschera e adesso, liberatosi di tutti gli alibi morali (quei "buoni istinti" di cui parla, parafrasando Lincoln, il generale Corman a Nha Trang), combatte senza più fingimenti di sorta. Il nemico deve essere sterminato, lui lo sa, e a suo modo, andando fino in fondo, uccidendo e massacrando senza pietà, egli si comporta da guerriero.
Coppola si è sforzato di vedere in Kurtz soprattutto l'altra faccia dell'America, quella marcia ed abietta, che si è perduta andando troppo lontano nel territorio dell'orrore amorale. Uccidendolo, è come se egli avesse voluto esorcizzare definitivamente questo demone oscuro, in un rituale di purificazione in grado di preparare, in conformità alla ben nota vocazione pedagogica e moralizzatrice del regista, l'avvento di una nuova era. Per fortuna, il film va ben oltre le intenzioni dell'autore. Innanzitutto, è vero che Kurtz è un personaggio fondamentalmente archetipico. La stessa magnetica recitazione di Brando, mirante a circonfondere Kurtz di un'aura di enigmatica epicità, ce ne dà una conferma, non diversamente dalla fotografia di Storaro, la quale non ci mostra mai la figura di Kurtz illuminata per intero, bensì la fa emergere solo parzialmente dal buio in cui è avvolta, grazie a un eccezionale gioco di luci e di chiaroscuri. Kurtz è ambiguo, ineffabile, irrapresentabile (l'ultima sua fotografia di cui Willard riesce a entrare in possesso ce lo mostra come un'imponente macchia scura), perché egli non è altro che un'idea, un simbolo, una immagine traslata. Scendendo più in profondità, appare chiaro che Kurtz altri non è se non l'alter ego, il doppio metaforico di Willard. Questa identità è preannunciata già nel monologo iniziale ("Non c'è modo di raccontare la mia storia senza raccontare la sua, e se la sua storia è in realtà una confessione, allora lo è anche la mia"), è confermata da analogie non fortuite (entrambi, ad esempio, affermano in circostanze diverse di odiare le menzogne più di ogni altra cosa), ma soprattutto è costruita attraverso un graduale processo di identificazione, che porta Willard a comprendere sempre più le ragioni della ribellione di Kurtz man mano che le pagine del rapporto segreto vengono interpretate alla luce delle emblematiche esperienze del viaggio. Così, quando Willard uccide la ragazza ferita sul sampang per non provocare ulteriori ritardi alla missione, egli agisce come Kurtz, egli è già Kurtz. Ciò che, nella scena fatidica dell'incontro con il colonnello, atterrisce e sgomenta Willard non è perciò l'improvvisa presa di coscienza dell'esistenza di una scissione interiore (come avveniva, ad esempio, a Pietro il Rosso nella kafkiana "Relazione per una Accademia"), bensì la scoperta di un'intima rispondenza, di una impalpabile affinità con la parte più selvaggia e istintiva dell'io.
E' per questo che la dibattuta questione sui due finali non è così oziosa come a molti critici è parso. A mio avviso l'unico finale legittimo è quello che, presentato al Festival di Cannes, sembra riproporre in chiave rovesciata il mito di Parsifal e di Amfortas. Willard esaudisce il desiderio di Kurtz di essere "liberato dal dolore" – quella volontà di morte cui si è già accennato più sopra e che rappresenta la prometeica sconfitta esistenziale di Kurtz – e, uccidendolo, prende il suo posto. Il Male trionfa perché, in un mondo di orrore e di follia, esso è l'unica verità, e non c'è nessun termine positivo che possa opporvisi (non lo è certo Willard, cinico, disilluso e privo di valori, e quindi anti-eroe per eccellenza). Il significato rituale insito nella sequenza dell'uccisione di Kurtz (la quale, per il volto tatuato di Willard che emerge dal fango come un nuovo, terribile Golem, per la geniale funzione contrappuntistica assegnata alla visionaria musica dei Doors e per il montaggio parallelo – e simbolico – della morte di Kurtz con il sacrificio del bue sacro, è forse la più bella dell'intero film) rafforza ulteriormente la convinzione che questo, e non altri, è l'autentico finale di "Apocalypse Now". E' come se assistessimo, in fondo, a uno di quei riti raccontati da Frazer ne "Il ramo d'oro", il saggio sulla magia e sulle religioni che non a caso è uno dei libri inquadrati brevemente dalla macchina da presa nell'antro di Kurtz (e proprio in un suo capitolo, "L'uccisione del re divino", vi sono esempi di avvicendamento al potere che mostrano sorprendenti analogie con "Apocalypse Now"). Senza tener conto di queste considerazioni, Coppola ha optato invece, nella versione definitiva (circolata anche in Italia), per un altro finale: dopo aver ucciso Kurtz, Willard prende per mano Lance (psichicamente regredito a uno stadio infantile e per questo assimilato fin da subito nella primitiva tribù del colonnello), risale sulla barca e ritorna alla realtà, dopo aver ordinato via radio di bombardare il villaggio. Secondo la migliore tradizione hollywoodiana, Coppola sceglie, ottimisticamente, di ricomporre l'ordine smarrito e di far vincere il Bene (persino un Bene ormai privo di valore), anche a costo di introdurre più di una nota dissonante nell'architettura del film.


"C'era là dentro un fiume, un fiume enorme, che somigliava straordinariamente, sulla carta, a un immenso serpente, con la testa nel mare, il corpo riposato, disteso in una curva lontanante entro una vastissima regione, la coda sperduta nelle profondità del continente… Il serpente mi aveva affascinato" (J. Conrad: "Cuore di tenebra")

Il viaggio lungo il fiume Nung si carica altresì di valenze spiccatamente metacinematografiche, assorbendo dall'immaginario del cinema di viaggio (e di avventura) una notevole quantità di elementi mitici. L'iniziazione dell'eroe a una missione pericolosa, il confronto con un ambiente ostile, i cimenti intermedi che mettono alla prova la forza dell'eroe, lo scontro finale, sono tipici topoi narrativi che fanno di "Apocalypse Now" una sorta di moderna Odissea. Da questo punto di vista, il film di Coppola non fa altro che sfruttare la straordinaria (e universalmente riconosciuta) forza mitopoietica del cinema americano classico. Il suo procedere (inevitabile, trattandosi di un viaggio in celluloide) per semplice accumulo di particolari e di episodi distinti, in vista dello scioglimento finale, può far apparire "Apocalypse Now" come un film privo di un personale e coerente sviluppo narrativo. In realtà, a ben vedere, ogni episodio, sebbene appaia slegato da tutti gli altri, è inscritto in una progressione rigorosa e ineluttabile (un vero e proprio itinerario maieutico) verso la fatidica presa di coscienza di Willard. Che si tratti di tanti tasselli indissolubilmente connessi tra loro lo dimostra sufficientemente bene la voce fuori campo, che assegna ad ognuno di essi un significato emblematico che rimanda allusivamente a Kurtz. Così, dopo l'episodio di Kilgore, Willard commenta: "Se quello era il modo con cui Kilgore faceva la guerra, cominciai a chiedermi che cosa avessero contro Kurtz. Non era soltanto follia e assassinio, di questo ce n'era per accontentare tutti"; dopo essere stati messi in fuga nella foresta da una tigre: "Mai lasciare la barca, maledettamente giusto, a meno che tu non sia pronto per arrivare fino in fondo. Kurtz aveva lasciato la barca, aveva tagliato i ponti con tutti i programmi del *****… Più leggevo e cominciavo a capire, più lo ammiravo"; e al termine dello scontro a fuoco con il sampang vietnamita: "Era un modo particolare che avevamo di vivere con noi stessi. Li facevamo a brandelli con una mitragliatrice e poi gli davamo un cerotto… Ora sentivo di sapere una o due cose su Kurtz che non erano nel suo dossier". Sotto questo specifico angolo visuale, la sceneggiatura di Milius e Coppola, lungi dall'essere una sceneggiatura "di genere", risulta assai più organica e calibrata di quanto possa apparire a un primo approccio.
Il Vietnam offre a Coppola anche l'occasione di rispolverare alcuni luoghi comuni giovanili degli anni sessanta: il rock e la droga, ad esempio, Jim Morrison e l'LSD. Proprio l'importanza data nel film alla droga mi porta a parlare del viaggio di Willard verso Kurtz come di un lungo e frastornante trip. Le prime parole di Willard a Saigon ("Ogni volta penso che mi risveglierò di nuovo nella giungla. Quando ero a casa, dopo il mio primo viaggio, era anche peggio, mi svegliavo e c'era il vuoto… Quando ero qui, volevo essere là; quando ero là, non potevo pensare ad altro che a tornare nella giungla") rimandano proprio allo stato di dipendenza, di assuefazione, che le sostanze stupefacenti provocano in chi si droga. Marijuana e LSD circolano del resto normalmente tra l'equipaggio della piccola imbarcazione, Lance incomincia a dare segni di squilibrio mentale dopo essersi fatto "l'ultima punta di acido", e completamente "fatti" sono anche i soldati dell'avamposto di Do Lung, che combattono in un paesaggio spettrale con la musica di Jimi Hendrix in sottofondo. Lo stesso stile del film è tipicamente allucinatorio, visionario e psichedelico: i soldati fanno il surf sul fiume sotto i bombardamenti, le postazioni militari sorgono davanti agli occhi di Willard come rutilanti scenografie felliniane, fumogeni rosa e arancioni invadono l'aria non meno fittamente della nebbia tropicale, resti di elicotteri e aeroplani penzolano assurdamente dagli alberi. E' evidente che, a dispetto del dato realistico di partenza, "Apocalypse Now" non è un film-documentario o un esempio di cinema fenomenologico, ma è un film volutamente artificiale, a tratti anche operistico, senza alcun dubbio surreale. Anzi, con una azzeccata espressione dell'autore, "Apocalypse Now" può essere definito a buon diritto come "il primo film surrealista da trenta milioni di dollari".
Se il viaggio di "Apocalypse Now" è una metafora della droga, esso è altresì un ottimo pretesto per attraversare i generi cinematografici più svariati. Il colonnello Kilgore e i suoi uomini ("La Nona era una vecchia divisione di cavalleria che aveva barattato i cavalli con gli elicotteri per scorrazzare attraverso tutto il Vietnam in cerca di guai") sono ad esempio una geniale variazione sul tema del film western: col suo cappello da ufficiale nordista, Kilgore sembra proprio una imitazione di John Wayne, e non a caso è un trombettiere stile Fort Apache a dare la carica agli elicotteri. La stordente esibizione delle playmates, sotto la luce violenta di abbacinanti riflettori, fa invece venire in mente il musical, mentre l'incontro con la tigre nella foresta ripercorre gli stilemi tipici dell'avventura salgariana. Coppola rivisita questi generi decodificandoli alla luce di una personalissima concezione del cinema (e della guerra, naturalmente) come spettacolo tout court. Il Vietnam è visto ora come un circo (la base militare parata a festa per l'arrivo delle conigliette, i generali americani paragonati a "un gruppo di clown con quattro stelle") ora come Disneyland (il fiammeggiante ponte di Do Lung, di fronte al quale l'estasiato Lance esclama: "E' meraviglioso!"), sempre e comunque come luogo dello spettacolo per eccellenza. In questo senso, l'immagine ingrandita dell'occhio (la quale ritorna più volte nel corso del film) riassume appropriatamente il ruolo rivestito dallo spettatore coppoliano, che trova nella fantasmagorica messa in scena del conflitto vietnamita il luogo privilegiato della visione cinematografica.


"Detesto tutto ciò che è provvisorio… è la fine di tutto, è la fine del film" (F. Truffaut)

Giunto nel macabro regno di Kurtz, dopo aver attraversato tutto l'immaginario del cinema americano (e hollywoodiano), Coppola approda, con un mutamento linguistico ed espressivo sorprendente, al cinema d'autore europeo. Lo stile, che prima era fragoroso e superficiale, dominato dall'uso del dolly e da un montaggio incalzante, si fa ora lento, elaborato e profondo. Mentre è possibile apprezzare una cura nettamente maggiore nella composizione delle inquadrature (ad esempio, la presenza di più piani all'interno del quadro), la fotografia (che durante il viaggio sul fiume rifuggiva da qualsiasi orpello effettistico e puntava al più a tradurre sul piano figurativo il contrasto tra due civiltà, tra la luce naturale del Vietnam e le lampade e i gruppi elettrogeni degli americani, come nelle fondamentali sequenze dello show notturno e del ponte di Do Lung) fa sfoggio di raffinatissime invenzioni visive, come quelle strisce di luce che fendono l'oscurità in cui è acquattato Kurtz e che danno alla sua casa un senso di claustrofobia e di disfacimento fisico e morale. Se prima i rimandi erano soprattutto cinematografici (l'Altman di "Mash", lo Huston de "L'uomo dei sette capestri", il Milius di "Un mercoledì da leoni"), adesso i riferimenti culturali si fanno più pesanti ed esibiti, al punto che Coppola si diverte a mettere in piedi un vero e proprio gioco enigmistico per cinefili esperti. Il punto di riferimento imprescindibile è ovviamente, come si è già visto, il "Cuore di tenebra" di Conrad, rivisitato peraltro molto liberamente dagli autori. Da Conrad, attraverso la citazione posta in esergo alla poesia "Gli uomini vuoti" ("Mistah Kurtz – lui morto"), si passa ad Eliot, i cui versi Kurtz declama nella sua ascetica solitudine. Da Eliot, tramite un allusivo richiamo nei versi finali de "La terra desolata", si salta infine alla Weston, autrice di "From ritual to romance". Questo libro e il già citato "Ramo d'oro" di Frazer, sono accomunati in una lenta panoramica che, un po' come avveniva ne "La camera verde" di François Truffaut, rivela in maniera esplicita i debiti culturali di "Apocalypse Now" nei confronti dell'arte europea. Vi sono infine innumerevoli altre fonti non accreditate, dalla Bibbia (il libro dell'Apocalisse in particolare) alla Divina Commedia di Dante, da Nietzsche a Sofocle, da Eschenbach a Freud, che fanno di "Apocalypse Now" un complicato coacervo che riassume al suo interno le influenze letterarie e filosofiche più disparate.
Quando "Apocalypse Now" entra in una dimensione dichiaratamente intellettuale, filosofica e metafisica, il film rischia seriamente di sgonfiarsi. La retorica e il kitsch, profusi in abbondanza sotto forma di citazioni colte e di dialoghi elevati, stentano infatti a reggere il passo con il fascino potente delle immagini, anche se, considerate le difficoltà intrinseche (si trattava di dare a un personaggio mitizzato a dismisura, e nei confronti del quale si erano create aspettative gigantesche, uno spessore psicologico adeguato), Coppola e Milius escono tutto sommato bene dalla prova, magari ricorrendo con astuto opportunismo ai versi di Eliot come a un'ancora di salvezza. Quello che a Coppola riesce in pieno è comunque l'intento di dare, con "Apocalypse Now", corpo ed espressione a un'originale e innovativa concezione del cinema. Grazie a un montaggio reso possibile da sofisticatissime apparecchiature elettroniche (c'è stato perfino chi ha paragonato lo studio di missaggio del suono del regista a un set di "Guerre stellari"), Coppola ha potuto ad esempio sbizzarrirsi in effetti speciali di vario tipo, in sovrimpressioni doppie e triple, in dissolvenze incrociate mai viste prima. La sequenza iniziale, in cui le immagini della foresta in fiamme e degli elicotteri scorrono sopra al volto di Willard ripreso perpendicolarmente dall'alto, è un capolavoro nel capolavoro, e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, come si è ancora molto lontani dall'aver raggiunto i limiti estremi della rappresentazione cinematografica. Non è del tutto azzardato pensare che, ad un certo punto delle riprese, Coppola si sia immedesimato totalmente in Kurtz, che, come in un film gotico di altri tempi, il creatore si sia letteralmente sovrapposto al suo personaggio, tanto la megalomania del primo assomiglia al blasfemo titanismo del secondo. Il destino dei due in fondo non mi sembra molto dissimile: come Kurtz è trucidato da Willard in nome dei sacri principi dell'american way of life, così Coppola viene punito dal mondo del cinema per il suo sogno di onnipotenza (l'ambizione di fare, un anno dopo "Apocalypse Now", il film dei film – "Un sogno lungo un giorno" – con l'esasperato impiego di nuovissime tecnologie video ed elettroniche), pagando con il fallimento dei suoi studi, e la conseguente sottomissione alle regole produttive di Hollywood, questo smisurato, anche se umanissimo, peccato di superbia.