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L'ADULTERA regia di Ingmar Bergman

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kafka62     5½ / 10  03/03/2018 15:36:25Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Ti è piaciuto il film?" "No, troppi sbaciucchiamenti". Questo scambio di battute tra la protagonista Karin e il figlioletto Anders appare dotato di una involontaria quanto ironica carica autoreferenziale, giacché "L'adultera" – forse il più brutto film in assoluto di Ingmar Bergman – è per almeno un'ora niente più che la versione mediocrissima, ancorché ammantata di velleitarie pretese di cinema d'autore, di una normale pellicola hollywoodiana di amori e infedeltà coniugali. Il minimalismo, si sa, non si addice al regista svedese, e difatti questa storia di "gente comune" che si innamora, si tradisce e si concede alla passione, con tutti gli annessi ed ovvi strascichi di dubbi, rimorsi e reticenze, è raccontata in maniera un po' goffa. Che Bergman sia a disagio lo si nota già dalla sceneggiatura, desolatamente priva di lampi di genio, carente nell'approfondimento analitico (rimangono oscure ad esempio, al di là dell'immediata e comoda spiegazione della morte della famiglia nei lager nazisti, le ragioni del comportamento scostante e autolesionista di David) e a volte affetta persino da una deprimente meccanicità (si consideri la sequenza seguente: Karin saluta dalla finestra il marito Andreas che si allontana in automobile, quindi si volta e la camera va a inquadrare il telefono, il quale squilla puntualmente nell'appartamento di David; il tutto dopo che la scena precedente si era conclusa con la frase: "Ti telefono domani mattina").
Per contrastare questi evidenti fenomeni involutivi, Bergman si sforza di utilizzare uno stile per lui inusuale (anche se certe anticipazioni nouvellevaguiste si erano avute, sia pure con ben diversi risultati, in film come "La vergogna"): macchina a mano, montaggio veloce e a tratti frenetico, camera che salta senza sosta da un personaggio all'altro. L'effetto finale è francamente dissonante, in quanto alcune scene (il risveglio della famiglia al suono di una musichetta allegra ed orecchiabile oppure la scelta del vestito per il primo appuntamento) stridono con altre in cui, sebbene con impaccio, il regista cerca di conferire un tono più profondo e riflessivo alla pellicola.
Nella seconda parte del film, queste stridenti ambiguità si attenuano fin quasi a scomparire. Non che da questo momento in poi ci sia dato di assistere a cose eccezionali, tutt'altro; ma piuttosto di quel Bergman spaesato, confuso e velleitario, appaiono di gran lunga preferibili la maniera e il dèja vu, i simbolismi (gli insetti che rodono dall'interno la statua di legno, il graffito sul muro della chiesa) e le insistite iterazioni (lei si dice convinta che lui sia in procinto di lasciarla, ma quando ciò avviene non può fare a meno di partire alla volta di Londra per capire il perché; più avanti lui ritorna, ma ora è lei a non volerne più sapere), i dialoghi-monologhi di seriosa intensità e gli sviluppi tragici della storia (Karin lascia il marito per andare in cerca dell'amante, ma quando incontra la gelosa sorella di questi capisce di aver perso anche lui). Come si può vedere, il film è ancora assai lontano dal raggiungimento di un accettabile equilibrio (per di più, molte cose rimangono inespresse: che fine fa il bambino che Karin aspetta? e la malattia ereditaria di David?), ma almeno riacquista uno stile più consono al regista, oltre che una maggiore efficacia fotografica (al posto dell'insipido technicolor dell'inizio).
"L'adultera" fa ancora in tempo ad archiviare alcune buone scene (specie quelle che vedono Max Von Sydow, prima opaco e senile, trasformarsi all'improvviso in personaggio lucido, determinato e quasi crudele), ad introdurre l'importante motivo della scelta ("Karin ha compreso che rompere l'attesa significa fare una scelta… che manderebbe a monte i suoi egoistici equilibri interni, secondo i quali due mezzi amori, nel grembo di una società tanto tollerante e distratta, sono meglio di uno problematicamente accettato", Tino Ranieri: Ingmar Bergman, La Nuova Italia, pag. 101) e a inventare un finale non banale, caratterizzato da una inusitata sospensione del senso (David si allontana ripetendo all'indirizzo di Karin: "Tu menti!"; l'interesse del film si sposta quindi verso problematiche più complesse, non più "come si comporteranno adesso i protagonisti?" bensì "qual è il loro atteggiamento nei confronti della nuova realtà che si trovano a vivere? di ipocrita accettazione o di sincera adesione?"). Purtroppo il cambiamento di registro risulta tardivo, in quanto interviene quando l'interesse verso i personaggi (pur ravvivato da sporadici colpi di scena: veniamo ad esempio a sapere che David ha tentato il suicidio e che soffre di una misteriosa malattia) è ormai definitivamente scemato. Quanto detto sopra porta a fare due distinte considerazioni: la prima è che "L'adultera" è un'astuta operazione commerciale e niente di più; la seconda è che né le love stories (ancorché problematizzate e venate del suo tipico pessimismo esistenziale) né il cinema hollywoodiano si confanno alla personalità registica, profondamente e autenticamente europea, di Ingmar Bergman.