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LA VERGOGNA regia di Ingmar Bergman

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amterme63     7 / 10  13/01/2011 23:59:58Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Con questo film Bergman ha voluto misurare l'impatto della guerra sull'esistenza di esseri umani particolari, quali quelli ultra-sensibili, riflessivi e iper-(auto)coscienti (in genere artisti) tipici della sua cinematrografia degli anni '60.
Finalmente in un film di Bergman sembra entrare la realtà storica e contingente; invece anche stavolta il punto di vista è generalistico e quasi astratto ed è sempre quello esistenzialista.
L'epoca in cui uscì il film (1968) era iperpoliticizzata ed era quasi un dovere per un artista-intellettuale (categoria sugli scudi a quel tempo) prendere posizione su temi scottanti come la rivolta giovanile e la Guerra del Vietman. Bergman coraggiosamente si tiene fuori dalle dispute del momento e ci regala un film che possa essere comprensibile in tutte le epoche. Infatti il ritratto che fa dell'impatto della guerra sulla vita quotidiana di persone che vivono in un contesto civile, tranquillo e isolato è a dir poco dirompente e comprensibilissimo anche adesso. Infatti la prima cosa che viene in mente guardando questo film è la guerra in Bosnia. Si comprende benissimo cosa possa essere successo, dall'oggi al domani, in quella terra martoriata. Veramente ci si sente delle nullità, degli esseri senza difesa in balia dell'arbitrio altrui. Una cosa terribile e questo film riesce benissimo a trasmettere questa impressione, anche senza calcare troppo la mano.
Bergman va oltre a questo ritratto negativo e dimostra che circostanze sfavorevoli determinanto pesantemente la condotta individuale anche dell'essere più pacifico e arrendevole. In "L'ora del lupo" aveva mostrato come solitudine, isolamento e ossessione spingano l'animo umano a perdersi nelle spire dell'irrazionale; qui ci mostra impietoso come la lotta per la sopravvivenza (ma anche la gelosia, il senso di proprietà violato) ci spinga a tirare fuori il peggio di noi stessi, ci porti a fare cose che non immagineremmo mai di fare (tema ripreso da Peckinpah con "Cane di paglia").
In un'epoca di forte impegno civile come quella del '68 si capiscono le polemiche suscitate dal ritratto di intellettuali disimpegnati, passivi, isolati, chiusi nelle loro diatribe esistenziali. Un messaggio molto negativo e che non lascia grandi speranze non era quello che all'epoca ci si attendeva da un "intellettuale". Guarda caso tutto questo è invece assai più comprensibile adesso in tempo di sfiducia e nichilismo.
Questa è la parte più interessante e "moderna" del film. Le tecniche di ripresa, le scenografie e la recitazione come al solito sono di alto livello (qui Bergman privilegia i campi lunghi e le panoramiche, tenendo lo spettatore distaccato da ciò che vede e quindi più raziocinante).
Per il resto il film è decisamente lento e pesante da seguire. Si sente stanchezza e ripetitività nel trattamento dei temi (la situazione ritratta è molto simile a quella di "L'ora del lupo"), inoltre il repentino cambiamento del protagonista rimane sinceramente un po' inspiegato e poco plausibile e comunque non troppo approfondito.