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LA VERGOGNA regia di Ingmar Bergman

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kafka62     8 / 10  26/01/2018 11:53:15Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Messe momentaneamente da parte le problematiche religiose e metafisiche, Bergman ha affrontato, in piena epoca sessantottesca e col conflitto vietnamita ancora in corso, l'arduo tema della guerra; e siccome dal maestro svedese ci si attende sempre e comunque il messaggio illuminante e definitivo, è parso inevitabile che La vergogna suscitasse alla sua uscita polemiche aspre e feroci. In particolare non sono state perdonate a Bergman le apparenti dichiarazioni di neutralità presenti nei dialoghi ("… con questa guerra che dura da tanto… non è facile avere delle idee politiche, dice ad esempio Eva all'intervistatore), ed in generale il qualunquismo dei protagonisti, ignorando con colpevole leggerezza che i personaggi di un'opera d'arte non sono da considerare automaticamente come i portavoce dell'ideologia dell'autore, la quale emerge invece, magari in forma contraddittoria e problematica, da un'analisi critica e non superficiale dell'opera stessa.
Così, ne La vergogna, Eva e Jan sfuggono la realtà, autoesiliandosi nella loro casa-rifugio (ancora la bergmaniana isola di Faro) e facendo di tutto per non ricordare che c'è una guerra in corso (più lui di lei, a dir la verità); ma lungi dal fare la loro apologia, il regista dimostra (e questo è l'unico, autentico significato da dare al film) che la guerra conduce in ogni caso l'individuo all'abbrutimento e alla dissoluzione morale (alla fine Eva tradirà il marito e Jan ucciderà con fredda determinazione due esseri umani). Quando infatti la guerra irrompe nella vita dei due coniugi e giunge il momento delle scelte e delle responsabilità, l'apoliticismo e la voglia di non prendere partito li rende manovrabili, strumentalizzabili, facile preda degli impulsi più turpi, ancorché dettati da un confuso e incontrollato istinto di sopravvivenza. La mancanza di un ordine etico in grado di sovrintendere alle loro esistenze e la ricerca di una soluzione che il più delle volte viene a coincidere con la fuga (ad ogni costo e con qualsiasi mezzo) determina l'inesorabile sconfitta della coppia.
La tematica dell'uomo sbalestrato dalle tempeste della Storia non è certo nuova al cinema (basti pensare al primo Wajda o, in chiave di commedia, al comenciniano Tutti a casa), ma Bergman la astrattizza, la decontestualizza, rendendo il messaggio se possibile ancor più universale e totalizzante, valido per ogni epoca e condizione storica. Sappiamo infatti che c'è una guerra, ne vediamo gli effetti sotto forma di distruzione e morte, ma la nostra conoscenza si esaurisce qui: nulla ci viene detto su quali siano gli eserciti in lotta, sull'epoca in cui si sviluppano gli avvenimenti o sulle motivazioni e gli interessi in gioco. Gli elementi realistici passano in secondo piano, subordinati alla creazione di un clima che diventa sempre più onirico e irreale man mano che il film va avanti. La guerra rappresentata da Bergman perde in tal modo le sue potenziali connotazioni sociali e politiche, finendo per diventare un orribile incubo senza causa che avviluppa implacabilmente i personaggi. "Certe volte mi sembra che sia tutto un sogno – confessa Eva al marito – ma non un sogno mio, un sogno di un altro e del quale io faccio parte. Che avverrà quando chi ci ha sognato si sveglierà e si vergognerà del suo sogno?". A questo proposito, bisogna dire che la progressione stilistica del film è ammirevole: alle sequenze ordinate e compiute dell'inizio si sostituiscono inquadrature sempre più brevi e indifferenziate, legate tra loro non più da una logica narrativa, ma da fondu scuri che costituiscono altrettanti elementi di rottura dell'unità filmica. L'atmosfera diventa rarefatta ed angosciosa, i paesaggi illusori e irriconoscibili nella loro desolata scabrosità, fino a giungere alla splendida scena conclusiva – vero e proprio exploit surrealistico – in cui l'imbarcazione di Jan ed Eva viene a trovarsi circondata da una distesa di cadaveri galleggianti.
Bergman non rinuncia con questo al suo cinema psicologico. Infatti, il rapporto dei personaggi con la realtà della guerra si riverbera puntualmente all'interno della vita di coppia. I due sono ritratti all'inizio in una situazione di equilibrio fittizio (topos classico del cinema bergmaniano, momento ideale da cui partire per poi fare esplodere impietosamente le crisi latenti). Educati, premurosi e apparentemente innamorati, Jan ed Eva lasciano però trasparire nei loro reciproci rapporti delle microscopiche incrinature, degli impercettibili cambiamenti d'umore, rinfacciamenti subito soffocati o accuse sottili pronunciate col sorriso sulle labbra (Liv Ullman è in questo un'attrice perfetta, algida, dura e controllata, capace di grandi crudeltà psicologiche ma anche, a esser sinceri, degli unici momenti di vera umanità del film). La crisi individuale (determinata, come abbiamo visto, dall'esposizione diretta agli effetti devastanti della guerra) si accompagna fatalmente alla crisi di coppia. I due protagonisti si allontanano l'uno dall'altra, si tradiscono e si umiliano a vicenda, non hanno più alcun motivo di rimanere insieme ma continuano a farlo unicamente per disperazione, ferocemente avvinghiati per una sorta di arcana legge di sopravvivenza. Bergman li ritrae spesso viso contro viso, in primissimo piano, ma la comunicazione è ormai definitivamente preclusa, come ben intuisce Eva quando si chiede con angoscia: "Cosa sarà di noi se non riusciamo più a parlarci?".
Con La vergogna Bergman riesce a coniugare le tematiche sovraindividuali (la guerra, le responsabilità dell'individuo nei confronti della società in cui vive, più allusivamente il ruolo dell'arte come possibile antidoto alla barbarie) con quelle più intime e personali (non è estraneo a questo discorso una sorta di nostalgico desiderio di recupero del passato, come dimostra il sogno iniziale di Jan e la scena del carillon in casa di Lobelius). A tal fine, il regista svedese abbandona provvisoriamente l'armoniosa geometria dei film precedenti, utilizzando al suo posto uno stile che ricorda un po' l'audace nouvelle-vaguismo dei primi Tarkovskij e Wajda: découpage spezzettato (lo abbiamo già visto più sopra), con ellissi più ardite del solito e dissolvenze che riducono le singole sequenze (quanto meno nella seconda parte) a micro-unità diegeticamente indipendenti, grande attenzione al montaggio, uso insolitamente rilevante della macchina a mano, alternarsi rapsodico di campi lunghi e primi piani, avvicendamento di registri narrativi diversi (si prenda la divertente scenetta in cui Jan cerca invano di uccidere una gallina col fucile), ricorso a una colonna sonora in cui la musica è assente e i rumori assurgono a componente filmica privilegiata, e persino lo sfruttamento di due cineprese per consentire agli attori di improvvisare i dialoghi. Tirate tutte le somme, il risultato è davvero alto: La vergogna è infatti, tra i film del grande regista svedese, se non quello meglio sviluppato tematicamente (la sua irrisolvibile ambiguità è comunque più un pregio che un difetto) o quello più apprezzabile stilisticamente, sicuramente uno dei più stimolanti e moderni.