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IL RITO regia di Ingmar Bergman

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amterme63     7½ / 10  26/01/2011 21:21:15Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
A guardarlo oggi ci si meraviglia di come questo film possa essere stato pensato, girato e proposto per il mercato televisivo. Ora come ora sarebbe impensabile trasmetterlo in prima serata tv e questo la dice lunga sullo scadimento qualitativo del piccolo schermo.
Occorre però anche riconoscere che si tratta di un'opera difficile, ostica, decisamente "non per tutti". E' un prodotto molto intellettuale, in cui si presentano immagini e concetti ricorrendo a nessi visivi e logici piuttosto sofisticati e complessi. Per capire ed apprezzare occorre la mente accessa e pienamente funzionante (cosa non facile, visto il ritmo decisamente lento).
Una traccia narrativa e di suspence comunque c'è ed è di stampo kafkiano. Assistiamo ad una specie di requisitoria in piena regola, senza avere dati e indizi diretti sulla ragione per la quale la requisitoria è stata intentata. Le situazioni e le ragioni si dipanano lentamente tramite la presentazione dei caratteri, in un crescendo emotivo-etico che sfocia in un finale scabroso e intellettualmente drammatico.
Lo scopo è quello di dibattere i temi cardine di tutta l'opera di Bergman; in questo caso il difficile rapporto fra la naturale libertà della creatività artistica e i paletti posti dalle regole sociali e burocratiche, il contrasto fra l'irrazionalità umana e la pretesa di distacco e controllo da parte della parte"razionale", l'estrema difficoltà, l'instabilità perenne e il disagio profondo nell'instaurare rapporti amorosi e confidenziali fra le persone, lo scacco e l'infelicità dell'esistenza umana, il vuoto e la vanità di qualunque costruzione metafisica (arte compresa).
Si tratta a grandi linee degli stessi temi che Bergman aveva affrontato in "Il volto". In quel film erano trattati in maniera diretta e chiara e riferiti al passato, qui invece vengono attualizzati e resi in maniera molto più "artefatta". Si sente molto l'influenza del cinema intellettuale francese dell'epoca. Qui la mdp sta quasi sempre appiccicata alle persone (assente una scenografia e uno spazio esterno) e rifiuta il meccanismo del campo-controcampo, creando un'atmosfera di straniamento e introspezione. L'accento è posto sull'indagine dell'interiorità e sulla personalità dei personaggi, piuttosto che sui fatti. Abbondano i simbolismi, le audacità; l'ipocrisia è bandita, tutto è mostrato e dibattuto.
E' quindi un'opera che denuncia in un certo senso la deriva "intellettualizzante" che aveva preso il cinema etico europeo. Piano, piano si tendeva a tralasciare il reale e il quotidiano per dibattere il concetto, l'archetipo, la struttura intellettuale del mondo umano e artistico.
Comunque il film si salva dall'aridità e dalla freddezza; la sofferenza ritratta è vera e sentita. Durante le elucubrazioni intellettuali-artistiche ci sono momenti di intensa poesia e profondità etica. Escono fuori verità e ammissioni che colpiscono e fanno male. La solitudine, il bisogno di affetto, la debolezza, la crudeltà sono espressi in maniera netta in specie di lampi etici che illuminano improvvisamente le scene dialogate. Tra l'altro per la prima volta si mette in dubbio l'utilità dell'arte e tutta l'attività "formativa" umana. Si insinua che forse è tutto lavoro inutile e la gente non sa cosa farsene.
Pur essendo un film difficile e intellettuale alla fine lascia qualcosa, è pur sempre un'esperienza estetica che vale la pena fare.