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I CATTIVI DORMONO IN PACE regia di Akira Kurosawa

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amterme63     8 / 10  29/04/2010 23:18:21Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il rischio di questo film è quello di non avere sullo spettatore lo stesso effetto che ebbe quando uscì nei cinema giapponesi nel 1960. Si tratta infatti di un film legato a doppio filo alla realtà politica giapponese dell’epoca. Bisogna quindi essere un pochino addentro alla storia e alla politica giapponese per poter capire bene.
Bisogna dire che da film-denuncia legato a singoli fatti si è trasformato con il tempo in un ottimo film-illustrazione di un’epoca storica (un po’ come i film italiani di attualità politica usciti negli anni 60-70).
Comunque un film di Kurosawa non è mai un film di genere e basta. Anche in questo film sono tirati in ballo conflitti umani, vengono rappresentate in maniera forte e intensa esperienze personali. In ogni film di Kurosawa c’è sempre lo stimolo a riflettere e a prendere posizione su temi universali (in questo caso se sia lecito o no usare gli stessi mezzi delle persone che si vogliono combattere, se si ha o no il diritto alla vendetta oppure se sia meglio usare il perdono, ecc.).
L’ambiente descritto è quello dei potenti e dell’alta finanza e lo scopo è quello di dimostrare che nonostante la grande ricchezza e la raffinatezza, dietro tutti i comportamenti c’è (come nei bassifondi) l’opportunismo, l’egoismo, il cinismo, lo sfruttamento altrui. La ricchezza e il potere non migliorano l’uomo, anzi si diventa più pericolosi e più dannosi perché si agisce in grande scala condizionando un’intera società.
Lo scopo era appunto quello di denunciare una stortura sociale del Giappone del dopoguerra. Come in Italia il potere era affidato a un grande partito populista e paternalista che “comprava” e riceveva favori. L’economia stessa seguiva questa linea di scambio di favori reciproci e la corruzione era all’ordine del giorno. In Giappone poi era stata riesumata da parte delle grandi concentrazioni economiche la vecchia etica feudale e militarista che vedeva i sottoposti giurare fedeltà assoluta ai superiori, fino a sacrificare loro la vita. Era normale leggere sui giornali di “suicidi” avvenuti in circostanze sospette. Ovviamente tutti sapevano ma nessuna parlava o aveva il coraggio di parlare. Non c’erano riscontri fattuali (in Italia come in Giappone).
E’ contro questo circolo vizioso (accettazione passiva delle regole generali, adeguamento al malcostume, impunità garantita) che lancia il suo grido artistico Kurosawa. Lo fa raccontandoci la storia di Nishi, un figlio di uno di questi “suicidati”, il quale architetta un piano diabolico per smascherare l’artefice delle trame illecite (il direttore di un ente pubblico), insinuandosi nella sua famiglia (ne sposa la figlia). Lo scopo finale è quello di denunciare lo sporco gioco all’opinione pubblica e far svegliare la gente, convincerla a non subire più e a ribellarsi apertamente.
L’impresa però non è facile. La zavorra dei doveri introiettati è troppo forte e non è facile convincere un impiegato ligio e fedele che è prima di tutto un essere umano indipendente e autonomo e non una marionetta guidata dall’alto. Ci sono poi grossi conflitti etici all’interno del protagonista stesso. Per poter portare a termine il piano deve diventare cattivo, deve imparare a odiare, cedere al cieco istinto della vendetta (altra tradizione giapponese che Kurosawa critica) e soffocare ogni altra ragione umana (l’amore per la figlia della persona che odia). Questa trasformazione però non riesce, l’umanità ha alla fine la meglio ed è purtroppo una debolezza che lo porterà alla rovina. Le scelte “nobili” non sono automaticamente le scelte vincenti.
Stilisticamente questo film appartiene alla serie dei film eclettici e di stampo teatrale. Si comincia distaccando lo spettatore dai protagonisti, grazie al fatto che i personaggi sono presentati da testimoni (dei giornalisti), facendoli così subito apparire come falsi e ipocriti e inquadrando bene l’ambiente in cui si svolge la storia. Poi si passa a scavare nelle ragioni personali di Nishi, a vivere in presa diretta i suoi intensi conflitti interiori, nonché la spregiudicatezza e il cinismo dei “grandi papaveri”. Nel finale il punto di vista diventa quello di persone che testimoniano il valore etico di Nishi, la vittoria che arride ai “cattivi”, pagata però con la sconfitta umana e con la perdita dei pochi affetti cari che rimanevano loro.
Il tutto è svolto tramite grandi quadri statici, come se si trattasse di una successione di scene teatrali. Tra l’altro qui Kurosawa evita accuratamente l’uso dei flashback e fa raccontare le scene del passato a voce da parte degli attori (e non visivamente come avveniva in Rashomon).
Si conferma grande attore, come al solito, Toshiro Mifune, ma la recitazione che mi è piaciuta di più è stata quella del “cattivo” anziano direttore dell’ente pubblico, interpretato da un irriconoscibile Masayuki Mori.
Il film è molto lungo, statico, lento e pesante – questo viene da provare di primo acchito appena visto il film; solo che i film di Kurosawa vanno fatti “depositare” in testa e di solito ritornano in mente e frullano per giorni e giorni. Così anche per questo film, che alla fine mi ha lasciato l’impressione di una grande esperienza di vita, un’arricchimento interiore e uno splendido spettacolo d’arte cinematografica.