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A HISTORY OF VIOLENCE regia di David Cronenberg

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kafka62     8 / 10  13/05/2018 16:08:28Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"A history of violence" è una lucida e approfondita metafora sul tema della violenza contemporanea. All'interno di una solida struttura narrativa (basata su un romanzo thriller), che è la più convenzionale mai affrontata da Cronenberg nel corso della sua carriera, il film offre lo spunto per molteplici riflessioni che la trascendono. La prima, e più ovvia, è che la violenza alligna e prospera come un cancro sotto la superficie dell'american way of life, sebbene la si tratti ufficialmente come un fenomeno eccezionale e nient'affatto di massa, contenuta entro limiti tutto sommato fisiologici. E invece, se si analizza attentamente la situazione al di là dell'Atlantico, la si può considerare addirittura uno "status" in qualche modo istituzionalizzato, se è vero che la difesa dei principi su cui si fonda il modello di vita americano prevede sistematicamente il ricorso alla violenza, sia a livello nazionale (l'America-poliziotto del mondo, che si arroga il diritto di dichiarare guerra agli stati-canaglia per difendere il proprio territorio dagli attacchi terroristici) sia a livello individuale (prova ne è il possesso di armi da fuoco da parte di una grande percentuale di cittadini americani, favorito – come aveva già dimostrato Michael Moore in "Bowling for Columbine" – da una legislazione estremamente permissiva in materia). La seconda, meno ovvia, riflessione, è che la violenza sembra fare ormai parte del DNA dell'americano medio, forse retaggio (ma non mi avventuro oltre in spiegazioni che potrebbero rivelarsi semplicistiche se non addirittura fuorvianti) di una costruzione della nazione americana troppo recente e pionieristica per poter consentire una rimozione completa del substrato di sangue e di delitti che l'ha accompagnata. Tutto questo lo aveva raccontato, per fare un solo esempio, John Ford in "L'uomo che uccise Liberty Valance"; in un'ottica diversa, ma sostanzialmente complementare, Cronenberg ce lo ripropone attraverso la rappresentazione (da leggere soprattutto a livello simbolico) di un personaggio dalla doppia personalità (tra l'altro del tutto congeniale, se si va al di là delle apparenze, alla propria estetica di autore, dal momento che di sdoppiamenti, mutazioni e contaminazioni il regista ha fatto nel tempo la propria ragion d'essere). Tom Stall-Joey Cusack non è un dottor Jekyll-mister Hyde, non è cioè un mostro dalla personalità abnorme e patologica, ma, tutto al contrario, è un uomo che porta alle estreme conseguenze il discorso fatto poc'anzi, che cioè è possibile (come già i protagonisti de "Il promontorio della paura" e di "Cane di paglia") essere un cittadino modello, un padre di famiglia esemplare, un individuo gentile e benvoluto da tutti, e allo stesso tempo, insospettabilmente, nascondere un'inclinazione alla violenza che, per quanto abilmente dissimulata, può fuoriuscire in qualsiasi momento (e mi sembra significativo che una metamorfosi speculare a quella di Tom si verifichi nel figlio, il quale per ribellarsi ai soprusi e alle angherie subite dai compagni di scuola è costretto a ricorrere a sorpresa alle maniere forti). Ciò porta all'ultima riflessione, che è un po' anche la morale del film, e cioè che la violenza, per quanto condannata ed esorcizzata, è tutto sommato tollerata dalla collettività, purché non alteri le regole base della convivenza. Quando la moglie di Tom, pur sconvolta dalla scoperta della doppia vita del marito, si schiera apertamente con lui durante il colloquio con lo sceriffo, e quando la famiglia riunita a cena riaccoglie nel proprio seno, senza fare alcuna domanda imbarazzante, l'uomo appena tornato dalla sua sanguinosa resa dei conti a Philadelphia, capiamo che, come in un film di Chabrol (inevitabile il riferimento almeno a "Stephane, una moglie infedele"), ciò che in ultimo conta davvero è il ristabilimento dell'ordine borghese.