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CRASH - CONTATTO FISICO regia di Paul Haggis

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kafka62     8 / 10  27/02/2018 13:50:07Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
La Los Angeles di Paul Haggis (trattasi di un'opera prima, ma lui non è affatto uno sconosciuto, avendo già vinto un Oscar per la sceneggiatura di "Million Dollar Baby") è un calderone ribollente di odio e insofferenza, frustrazioni e rancori repressi, il tutto in un contesto smaccatamente razzista. Il melting pot americano, a giudicare dal film, è in profondissima crisi e, come sanno bene coloro che conoscono davvero il razzismo, non si tratta di una guerra di tanti contro pochi, o di ricchi contro poveri, o (non solo) di bianchi contro neri, bensì di un conflitto che coinvolge tutti, yankees contro arabi, arabi contro neri, neri contro asiatici, asiatici contro ispanici, e così via, in una spirale perversa e autodistruttiva, in una catena senza fine. Non c'è nel film di Haggis la critica sociale di uno Spike Lee o il moralismo di un Paul Thomas Anderson, anche se di quest'ultimo il regista riprende (in maniera – detto per inciso – strepitosa) la struttura corale e polifonica. "Crash" è infatti un'opera non riconciliata, ha un andamento indubitabilmente classico ma non si sa mai veramente dove vada a parare, non rinuncia a uno sguardo emotivamente coinvolto eppure lascia nel vago la demarcazione tra giusto e sbagliato, tra personaggi positivi e personaggi negativi, e il tutto – si badi – senza mai apparire cinico, disilluso, ambiguo od ellittico. Capita così che il poliziotto che ha palpeggiato lascivamente una donna di colore fermata in auto col marito si redima salvandola il giorno dopo, a rischio della vita, da un brutto incidente stradale, e che il collega probo e integerrimo uccida a bruciapelo un ragazzo nero a cui aveva offerto un passaggio; e né il primo è un eroe e il secondo una carogna, né è vero il contrario. Credo che la filosofia di Haggis non sia immanente, ma metafisica: Los Angeles sarebbe quindi un pretesto per indagare l'eterno gioco del caso e del destino, in cui c'è meno Altman che Kieslowski. L'iraniano a cui è stato saccheggiato il locale vuole vendicarsi sull'uomo che non gli ha voluto riparare la serratura, e non uccide l'innocente figlioletta di costui solo perché (ma lui non lo sapeva) nella sua pistola erano caricate pallottole a salve. In questa sequenza sconvolgente si potrebbe quasi gridare al miracolo, ma poi più avanti un personaggio muore per sbaglio proprio stringendo in mano una statuina sacra. Eppure l'assassino suo malgrado poche sequenze prima aveva salvato la vita, anche questa volta involontariamente, al regista televisivo che aveva una pistola non sua in tasca. Di incroci ed interdipendenze del genere il film è pieno. Ognuno si porta appresso la propria responsabilità individuale, e quando meno lo si aspetta capita anche un'inattesa occasione di redenzione (il ladro d'auto che libera i tailandesi rinchiusi nel furgone, rinunciando a una lauta ricompensa). Eppure tutto questo non basta, nessun happy end arriva a consolare lo spettatore dopo tanta tristezza, solo una insolita nevicata (anziché la salvifica pioggia di rane di "Magnolia") a dare un momentaneo respiro di sollievo ai personaggi. Ma dopo tutto ricomincia come prima, stesso odio, stessa insofferenza, stesse frustrazioni, stessi rancori repressi. Come a dire che, essendo la speranza in un mondo migliore se non proprio morta perlomeno intermittente e inaffidabile, ormai non basta neppure più il cinema a salvare l'uomo contemporaneo dalla sua condizione di ineluttabile solitudine e di fratricida disperazione.