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ORDET regia di Carl Theodor Dreyer

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Invia una mail all'autore del commento Elly=)     9 / 10  26/03/2012 00:44:20Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Seguendo lo schema del sovrannaturale che nasce dal fantastico profano, tipico dei popoli nordici di quell'epoca, che Dreyer adottò anche in altri film come VAMPYR e VREDENS DAG, il regista crea una vera e propria tragedia teologica che richiama l'alta drammaticità de JEANNE D'ARC, confermando ancora una volta la sua impareggiabile maestria e l'essere il "padre" di Bergman.

Lo sceneggiato venne tratto da una pièce teatrale di kaj munk molto fedelmente e se all'epoca il tema fu attuale lo è sicuramente anche oggi, di certo dopo aver visto ORDET non si può non pensare anche all'opera di kierkegaard.

Nel 1954 vinse il Leone d'oro a Venezia, a quel tempo ritenuto il premio più importante del mondo, anche se una vasta schiera di critici considerò l'estetica di ORDET un'estetica passata, vecchia, ma ancora una volta si sbagliarono.
ORDET può essere benissimo considerato l'ultimo vero film in b/n, dove la semplicità delle scenografie, i moltissimi piani-sequenza, i pochissimi esterni, i movimenti lenti dei personaggi, ma soprattutto l'uso artistico della fotografia rendono tutte le inquadrature un semplice godimento visivo. All'inizio del film vediamo la presenza di una grande luce diffusa dove le figure sono esenti di contrasto e di ombre, ma man mano che il film procede il bianco diventa sempre meno bianco, la luce inizia ad essere più dura e il contrasto più forte. Tutta questa importanza che il regista pone al bianco e ai grigi è data dal fatto che vuole sottolineare i nodi che si formano nei diversi rapporti, umani o spirituali che siano.

ORDET si apre con un'inquadratura che porta in sovrimpressione solo il titolo per poi passare ad uno spostamento della macchina che ci fa vedere la tenuta dei Borgen immersa nella natura, l'erba che si muove al soffiar del vento, i panni appesi che sventolano, tutte immagini rare in esterni che hanno una loro importanza dato che la maggior parte dell'anno il sole non c'è. Johannes, il fratello diventato pazzo per i troppi studi teologici che si crede gesù, è appena scappato per l'ennesima volta. I fratelli Anders, il minore innamorato di Anna la figlia del nemico di suo padre, e Mikkel, il maggiore che vorrebbe rinchiudere il fratello matto e non crede affatto in dio, insieme al padre, figura imponente del patriarca, a cui tutti fanno da riferimento ma che ha perso la fede, vanno a recuperare Johannes.
Il pazzo è salito in cima ad una collina e cita versi del vangelo detti da gesù: oltre alla recitazione perfetta con uno sguardo che sa essere allo stesso tempo triste, perso nel vuoto, speranzoso, il volto di questo falso cristo è perfetto, ricorda moltissimo le serie dei ritratti che fece Antonello Da Messina del volto di Cristo. L'unica che sembra essere la pecora non smarrita è Inger moglie di Mikkel, una figura centrale su cui sarà basato tutto il finale.

Una cosa, che penso sia automatica, è che venga da chiedersi: se uno del ventesimo secolo si crede cristo, figlio di dio e nessuno gli crede perché 2000 anni fa si?
Questa e altre riflessioni, religiose e morali, non solo vengono in mente allo spettatore, ma sono proprio oggetto di quesiti che si fa lo stesso regista, ci viene mostrato come la religione determina in gran parte la vita dell'essere umano.

Ci troviamo in una situazione che rientra nei canoni della normalità ma che improvvisamente viene scossa dal gesto finale di Johannes. La banalità quotidiana viene interrotta dal mistico. Inger è morta dopo aver perso il bambino: nessuno ci può credere, a parte il finto Gesù, il dottore aveva detto che stava bene ma a sentir le parole del matto la luce dei semplici fari dell'auto sono dio, quest'ultimo l'avrebbe portata via con sè e in effetti poco dopo Mikkeal annuncerà la sua morte. Più volte il pubblico si trova diviso, a contestare e a chiedersi se quello che vede è realtà, se dio esiste veramente.

Nella sequenza dove vediamo Inger partorire in sottofondo ci sono solo i suoni interni, la colonna sonora non interviene, come in tutto il film, tranne per la scena del salmo, e qui vediamo tutta la bravura di Dreyer nel rendere una scena che turba altamente senza l'intervento di una melodia. La macchina fa movimenti lenti (per tutto il film li fa ma qui assume un significato diverso) e le spinte che il dottore fa sulla pancia della donna li seguono a tempo come se fossero dei battiti, la linfa della vita. Una vita che presto non ci sarà più. Inger muore e sembra che tutti ne abbiano tratto profitto, ma è un profitto apparente, perché sarà solo il miracolo a cambiare le cose: i due padri di famiglia ora vanno d'accordo e i rispettivi figli possono sposarsi, il vecchio come suo figlio Mikkeal ritrova la fede, Johannes ha ritrovato la ragione. L'unica che non assume nessun cambiamento è la bambina, figura allegorica: essa raffigura la purezza, quindi l'anima che non dubita in quanto non conosce il peccato grazie alla sua innocenza.

Il personaggio di Johannes è un personaggio ambiguo, a metà tra il profeta e il matto, in bilico tra il ridicolo e la santità, irrita ma allo stesso tempo fa pena, le sue parole suonano di cose già sentite ma a cui non diamo importanza finchè esse non si rivelano la verità. E' un personaggio che ti porta ad uno straniamento continuo: è vero che parla come se fosse cristo ma il fatto che lui ha avuto una premonizione di una morte in casa e in seguito sia riuscito a resuscitare la donna fa sorgere un dubbio sul suo ruolo. Lui poco dopo la metà del film riesce a scappare e torna sano per il miracolo, questo induce a un duplice significato: per chi crede viene naturale pensare che il miracolo sia avvenuto veramente, ma per gli scettici il tutto cade in un risolino finale. Ma forse la strada che può riunire i due versanti è, al di fuori della veridicità dell'accaduto, la tematica sollevata e cioè la grande paura della morte che ha di natura l'essere umano, i problemi esistenziali che ognuno di noi si pone, la speranza alla quale molte persone si aggrappano fino alla fine, i dibattiti tra le varie Chiese inutili visto che il fine, la glorificazione di dio, è uguale per tutte,..
Sono film, quelli di Drayer, come lo possono essere quelli di Bergman, che bisogna imparare a digerire per quanto riguarda un possibile sconvolgimento dell'anima non indifferente.