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ORDET regia di Carl Theodor Dreyer

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ULTRAVIOLENCE78     8 / 10  22/06/2009 19:58:49Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
E’ certamente un film dotato di una notevole intensità. Un’intensità che monta via via al procedere lento delle lunghe sequenze e in virtù del graduale sviluppo delle personalità (soprattutto quando si rivelano contraddittorie e conflittuali) dei vari soggetti della “mise-en-scene”, evidenziate (in particolare nei volti, a dispetto dell’assenza di primi piani) da una mirata e meticolosa illuminazione, che ne fa stagliare le figure negli ambienti scuri e –salvo sporadici momenti- chiusi degli spazi circostanti. Encomiabile l’invettiva (già ampiamente esplicitata nel precedente “Dies Irae”), di ispirazione “kierkegaardiana”, contro l’ipocrisia delle dottrine religiose che negano la purezza dell’originario messaggio cristiano, qui incarnato dal personaggio di Johannes (peraltro, a un certo punto del film, si dice che la “follia” di quest’ultimo è cominciata dacchè egli ha iniziato a interessarsi dell’opera del filosofo danese). Encomiabile l’intento di proporre una concezione della fede scevra da qualsiasi esiziale sovrastruttura socio-culturale, attraverso le parole e i gesti immacolati del “pazzo” e della bambina, quali esempi di spontaneità e genuinità esaltati nel contrasto con la cecità degli adulti “savi”. Tuttavia, ricondurre la soluzione del dissidio interiore –manifestato dal personaggio di Mikkel, tra tensione alla fede e incapacità di coglierla, al compimento del miracolo può apparire, e a ragione, come una semplicistica via di comodo, soprattutto se si guarda all’ingiustizia di fondo del concetto di miracolo, laddove questo va a beneficare soltanto uno o alcuni privilegiati, obliando altri innocenti privi di macchie (cfr. la morte prematura del neonato). Ne consegue che anche l’ultima scena, ancorché permeata di “pathos” (dall’attesa per il risveglio della defunta alla luce tenue che rischiara la stanza, amplificando l’ineffabile grandezza dell’evento portentoso), rischia di essere ridimensionata nello scontro con la reale constatazione dell’assenza –almeno fino a prova contraria- di segni divini tangibili, volti a riparare ad infausti accadimenti. Ma se si riconosce che il miracolo in Dreyer assume una portata soprattutto simbolica, che trova la sua realizzazione nella capacità, da parte dei personaggi più “veri” della messinscena (la donna magnanima, il profeta illuminato, la bambina innocente e pura), di trascendere tutte le stupide divisioni costruite artificiosamente dall’umanità, allora tutta l’operazione filmica, condotta con estremo rigore formale, riconquista piena dignità, facendosi portatrice di un messaggio estremamente positivo, mirante ad una concordia totale ed incondizionata dell’umanità.
Ad ogni buon conto, permangono le riserve sull’utopismo di fondo del messaggio in questione, e a maggior ragione se ci si rifà all’immagine della morte dell’infante quale emblema di un necessario sacrificio umano per la realizzazione del bene (il che basterebbe e avanzerebbe per non “ritrovare la fede”).
Ciò non toglie che si è al cospetto di un grande film… soprattutto se si crede ancora nei miracoli…