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ORDET regia di Carl Theodor Dreyer

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amterme63     9½ / 10  11/01/2007 23:28:26Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Un film veramente fuori dal comune, difficile da commentare. Apparentemente è un film “tradizionale”. C’è una trama ben precisa, viene descritto un luogo geografico (la campagna danese) e un tempo stabilito (la prima metà del ‘900), ci sono dei personaggi con il loro mestiere, ma è come se tutto rimanesse come sospeso in un qualcosa di etereo. Tempo, ambiente, occupazioni rimangono sullo sfondo. Ogni elemento del film – personaggi, architetture, paesaggi – viene fatto “parlare”, esprime un messaggio, un’idea ben precisa. Si creano tutta una serie di posizioni esemplari, quasi dei simboli, che dialogano fra di loro. Il film è una rappresentazione fluida (uno scorrimento lento, pacato e intenso) di pensieri profondissimi. Il tema cardine è quello della “fede”, cioè il codice morale che deve guidare un uomo, la sua natura, il suo significato e la sua rappresentazione nell’infinità del tempo e nella totalità dello spazio.
Allo spettatore di cultura cattolica o “laica” potrebbe apparire un’ossessione, ma è una cosa naturalissima per un luterano, abituato a dialogare direttamente con la divinità e a farsi carico personalmente di quella missione che nel mondo cattolico viene svolta dai preti o dalle suore.
Il punto di riferimento del film è il vecchio Morten Borgen, un patriarca pieno di buon senso, con una visione della vita positiva, attiva e solida ma limitata alle cose della materialità quotidiana. Per lui D.io è una tutela di questo stato delle cose. Mikkel, il figlio maggiore, non crede in alcun D.io ma è pieno di giustizia e amore soprattutto per sua moglie Inger, che rappresenta la fede come dedizione agli altri, una visione sentimentale della fede. Il figlio minore è invece innamorato della figlia del sarto. Il sarto è una persona cupa, integralista con una fede fatta di paura e contrizione, l’opposto di Morten. Per tutto il film queste posizioni si incontrano dialetticamente e cercano di convivere insieme.
Il personaggio più interessante è però Johannes, il secondo figlio di Mortens. Essendo molto dotato intellettualmente, Morten lo ha mandato a studiare teologia, pregando ardentemente il Signore di farne un “santo”, una persona che avrebbe smosso le coscienze e migliorato l’umanità. Non si accorge che D.io gli ha veramente esaudito il desiderio, dando a Johannes la stessa natura umana/divina che ha vissuto Gesù. Johannes/Gesù vorrebbe riprendere la missione interrotta duemila anni fa di riforma totale dell’umanità ma è amareggiato dalla chiusura mentale, dalla mancanza di coraggio, dall’assenza di “fede”, di “fiducia” della gente che lo circonda. Eppure si tratterebbe semplicemente di credere nel “miracolo”, nel realizzarsi di quello che non si ha il coraggio o la speranza di vedere realizzato, ad esempio un’umanità senza guerre, senza violenza, senza sopraffazione. E’ questo il senso della “fede” per Johannes: l’audacia, l’entusiamo, la fiducia, la dedizione totale all’impossibile, all’utopico, al divino, al perfetto, qualcosa che non sia la fede limitata e materiale di Morten o la fede unicamente consolatrice del pastore. Eppure tutti lo considerano “pazzo”, tutti fuorché la bambina di Mikkel. I bambini sono i soli che riescono a capire e a credere, gli unici che riescono ad immaginare e ad avere speranza e fiducia.
E’ con lo spirito che hanno i bambini che si riescono a fare i “miracoli”, come ci mostra l’intensissima e commovente scena finale. Un miracolo ovviamente simbolico, che si traduce nella sconfitta della morte, cioè di tutto ciò che amareggia, abbatte e limita il genere umano.