caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

IL VIZIO DELLA SPERANZA regia di Edoardo de Angelis

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
kafka62     7 / 10  25/11/2018 18:34:28Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il cinema italiano degli ultimi anni sta rinascendo dalle periferie. Registi giovani e meno giovani, autori esordienti oppure già affermati, stanno riscoprendo sempre di più luoghi, ambienti e personaggi marginali e border line, che sembrano lontanissimi da un paese occidentale e (a dir la verità sempre meno) affluente come l'Italia, ma che pure allignano accanto alle nostre città, spesso nascosti come la spazzatura sotto un tappeto di indifferenza, come la cronaca spesso e volentieri insegna. Esempi emblematici di questa tendenza, per limitarci a quelli più recenti, sono film come "Dogman" di Matteo Garrone (girato nel Villaggio Coppola sul litorale domiziano), "La terra dell'abbastanza" dei fratelli D'Innocenzo (che hanno scelto come set Ponte di Nona, un recente quartiere dormitorio di Roma Est) e, naturalmente, "Il vizio della speranza" di Edoardo De Angelis, giunto al quarto lungometraggio a due anni dal promettente "Indivisibili". Ambientato alla foce del Volturno, in un paludoso paesaggio pieno di discariche, di pozzanghere e di sporcizia, dove gli echi della modernità giungono attutiti e il sole non fa mai capolino tra le nuvole, il film è una sorta di sacra rappresentazione che sorge inattesa dal fango, dalla miseria e dalla lordura, fisica e morale. Tra prostitute e mercanti di neonati, Maria (nomen omen!), una sorta di disilluso Caronte che fino ad allora si era guadagnata da vivere traghettando nottetempo donne extra-comunitarie giunte al termine della gravidanza per farle partorire e vendere i loro bambini a una losca mezzana, Maria – dicevo – si scopre a sua volta (misteriosamente) incinta e si ribella a questa ignominiosa tratta, decidendo di tenere il bambino contro tutto e contro tutti. In un mondo rassegnato all'apatia e all'indifferenza, che sopravvive alla disperazione stordendosi con l'eroina o la televisione, Maria sceglie la vita e la libertà (a dispetto di ciò che cinicamente le dice Zi' Marì: «State tutti fissati con la libertà; è così bella la schiavitù, con le sue regole, i premi e le punizioni») e, aiutata da un selvatico ma buono Giuseppe, ex giostraio ferito dalla vita e rinchiuso in se stesso tra vecchi ricordi e fotografie in bianco e nero, e da una ragazza di colore storpia, strappata a uno scontato futuro di prostituzione, darà alla luce il bambino, simbolo di una speranza che, come afferma il bellissimo titolo, è un "vizio" che l'umanità non smetterà mai, per sua fortuna, di praticare. Il film di De Angelis assume così il valore di una parabola religiosa, raccontata però nella forma infima e degradata (forse l'unica possibile al giorno d'oggi per un racconto del genere) di una sottocultura di esclusi ed emarginati. Il regista napoletano gira sequenze dove si percepisce un originalissimo senso del cinema e in cui etica ed estetica convivono felicemente, azzarda simbolismi che non cadono quasi mai nel didascalico (a parte, forse, quel cavallo nero che Maria libera dal recinto in cui è rinchiuso e che vediamo galoppare nel finale sulla spiaggia) e, aiutato dalla meravigliosa colonna sonora etno-partenopea di Enzo Avitabile e da un ottimo cast di attori semi-sconosciuti (a parte una vecchia conoscenza come Marina Confalone), realizza uno dei migliori film italiani degli anni duemila.