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L'ALBERO DEI FRUTTI SELVATICI regia di Nuri Bilge Ceylan

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kafka62     8 / 10  09/10/2018 08:54:58Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il cinema di Nuri Bilge Ceylan è diventato col passare degli anni sempre più ostico, verboso e persino estenuante nella sua durata extra-large (pochi autori al mondo - mi vengono in mente Bela Tarr o Lav Diaz - osano superare così spavaldamente le tre ore), ma, come è già successo con Andrej Tarkovskij nei suoi ultimi film, ha acquisito un indescrivibile incanto, una rarefatta poesia. Anzi, per proseguire il paragone, "L'albero dei frutti selvatici" può essere definito come la "Nostalghia" di Ceylan. Il regista turco segue le peripatetiche peregrinazioni dell'aspirante scrittore Sinan in un paese in cui stente a riconoscersi, a trovare la sua strada, e, pur non parlando mai direttamente di politica o di questioni sociali, riesce a fare un affresco quanto mai credibile della Turchia odierna, senza trascurare la cultura, la religione, il ruolo della donna o il progresso tecnologico. La sapienza dello sceneggiatore Ceylan si accompagna alla sua maestria nel creare inquadrature di estrema raffinatezza stilistica, valorizzando come nessun altro regista odierno è in grado di fare la dimensione paesaggistica. Immagini cromaticamente perfette sublimano una nevicata che imbianca la campagna o la luminosità del sole che si fa largo tra le fogli autunnali, per non parlare delle bellissime scene notturne che già mi avevano affascinato in "C'era una volta in Anatolia". Improvvisi momenti onirici squarciano di quando in quando il realismo della messinscena, rivelando un sottofondo simbolico di grande suggestione, e regalano allo spettatore motivi di insospettata speranza. In un mondo squallido e opprimente, che lascia aperta fino all'ultimo istante perfino la possibilità di un suicidio, Sinan e suo padre (un bellissimo personaggio di fallito che però si rivela meno negativo di quanto sembra) non si rassegnano mai alla loro sorte e in uno stupendo finale uniscono i loro sogni e le loro apparentemente inconciliabili aspettative. Come la campana di "Andrej Rublev" aveva saputo elargire i suoi rintocchi, così il libro di Sinan trova il suo lettore e il pozzo scavato nell'arida e pietrosa campagna darà – forse – un'acqua inaspettatamente rigeneratrice.