caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

SULLA MIA PELLE (2018) regia di Alessio Cremonini

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Terry Malloy     10 / 10  23/10/2018 21:41:58Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Con l'aggettivo possessivo, tipico della rivendicazione vittimaria (non la vostra, non la sua, ma la *mia*), inizia il film di Netflix che prova a fare luce, con le armi della letteratura, quei giorni oscuri e pieni di dolore fisico e spirituale.
Il film, dunque, parte con una rivendicazione legata allo sguardo della vittima-protagonista, è un film che viene girato del tutto in soggettiva, il punto di vista è sempre di Stefano, anche quando Stefano non c'è. Le botte non le vediamo, perché nemmeno Stefano le ha viste. Gli sono arrivate, con tutta la loro devastazione psicologica e fisica, in uno stanzino buio.
Il film sceglie lo sguardo di Cucchi, perché è l'unico che non abbiamo mai del tutto considerato. Penetra nella mente della vittima e soprattutto nei suoi occhi, gli occhi di un attore (il migliore che abbiamo, da 30 anni) che ha capito perfettamente il suo ruolo e ci ha restituito probabilmente la migliore interpretazione del 2018, se non anche di qualche anno addietro e avvenire.
Se il corpo di Stefano è devastato, gli occhi di Borghi rimangono vivi e vegeti e giudicano. Il corpo devastato è offerto allo sguardo dello spettatore (e di chi lo ha lasciato morire) come Ilaria, nelle sequenze storiche poste alla fine del film, faceva con quel poster ormai divenuto il simbolo di una battaglia con cui ormai di fatto stiamo crescendo e che sta contribuendo a plasmare la nostra coscienza civile. Ma è la mente di Cucchi che interessa al film (ossia, a chi l'ha costruito). Nei momenti in cui il corpo di Stefano perde progressivamente vita, gli occhi rimangono sarcastici, feriti, traumatizzati, caustici, giudicanti. Era un ragazzo, "un uomo di 31 anni" dice il padre (Max Tortora) per implorare un'adultità che non sarà la postura etica scelta da suo figlio per resistere al potere criminale che lo ha spezzato, letteralmente, in due.
Il film inizia con quattro sequenze meravigliose e che rilette retrospettivamente fanno male al cuore di chi ha visto e apprezzato il film: Cucchi che corre con le cuffie, Cucchi che va a messa a scambia il segno di pace, Cucchi che va a lavorare, Cucchi che taglia in 12 pezzi una panetta di fumo e Cucchi che va a casa di sua madre e suo padre e incontra la sorella.
La vita di Cucchi prima del momento cruciale che lo ha consegnato alla storia era tutta qui. Una vita normale, segnata da un disagio che era rimasto rinchiuso in quattro mura, prima che se ne interessasse lo Stato. Non a caso la il suo tempo è scandito da interni: l'interno della sua auto, dove viene beccato, l'interno della casa dove spezza il fumo, l'interno della casa dei suoi dove va in scena la sua vita morale e psicologica (i problemi che hanno tutti i figli coi loro padri), l'interno delle numerose celle in cui lo smistano durante la sua morte. La vita di Cucchi non si svolge mai all'aperto. Sembra un ragazzo tutto sommato contento di essere al mondo, ma consapevole di vivere in un posto dove si è soli. Infatti non rinuncia mai a cercare il contatto umano, dalle guardie, al giudice, alla famiglia, all'amico che lo tradisce (forse, "se vuole una canna iaa regalo, mica iaa faccio pagà"), ai secondini, ai compagni di cella, ai medici. Cucchi, come la sorella, vive di appelli, pronunciati sempre più faticosamente, ma sempre validi. L'appello è quello a vedere la sua devastazione e non chiudere gli occhi. La domanda con cui il film sfida lo spettatore è dunque questa: cosa ha ucciso veramente Stefano Cucchi?
Non è una domanda provocatoria, dal momento che né giudizialmente né storicamente ancora sappiamo qualcosa di definito. Ovviamente che siano state le "guardie bigotte" il film non lo mette in dubbio, che siano stati i medici (o chi per loro) a seguire pedissequamente le indicazioni che lo stesso Stefano dava è dato per scontato: "il paziente rifiuta le cure".
Ma COSA sia stato è ciò su cui si concentra questo piccolo grande pezzo di letteratura: perché il cinema non è ricostruzione della verità, né riviviscenza della memoria, né denuncia sociale. Possono diventarlo, ma non sono questo. La letteratura, col suo dispositivo realistico problematico, va a scavare dove si annidano le ambiguità, dove i documenti delle vite e delle posture degli uomini vengono nascoste nelle intercapedini dei luoghi da dove non si vuole che esca la verità, significa affondare nella materia complessa di una società che riflette su se stessa e questa ferita fa male a tutti, non solo a quella parte politica che nega l'esistenza di una violenza feroce nei corpi che dovrebbero rappresentare lo Stato.
Il film, in altre parole, tratta della Resistenza di Stefano Cucchi e non della sua morte. Tanto è vero che la sua morte è fatta vedere subito, nella sua intossicante normalità. Ciò che non è normale è come Stefano abbia scelto di reagire. Perché la tesi del film, ambigua e intelligentemente provocatoria, è che Cucchi in qualche modo si sia ammazzato da solo, come forma di disprezzo verso il potere che lo ha trattato come un drogato qualunque a cui insegnare una lezione ("se fossi pieno de fumo con cinque carabinieri intorno me ne starei zitto"). Quelli attorno a lui, quelli che conoscono la vita di strada, lo avvertono: "il dolore è traditore, arriva piano piano", non sappiamo, il film questo non può dirlo, se Cucchi è consapevole o no della difficoltà fisica che questa resistenza autodistruttiva e autolesionistica porta alla sua mente e alle sue scelte. Sappiamo che Cucchi vuole dimostrare qualcosa, e che la sua ostinazione è stato il primo step di una battaglia che la sorella ha compreso e assunto su di sé ("d'ora in poi si interfacci solo con me", dice all'avvocato), come una consegna. Questo il film racconta, dando a Cucchi quel che è di Cucchi. La tesi è sia letteraria che civile: se la vicenda di Cucchi è così esemplare e viva nella coscienza civile di una comunità, è innanzitutto grazie a lui, che si è lasciato morire per i nostri peccati. In questo senso va interpretato il richiamo cristologico finale (e la messa all'inizio).
Più umanamente, e psicologicamente, quello che quei tre animali (a cui non daremo la soddisfazione di chiamare "carabinieri", per non infangare la dignità dell'Arma) non hanno capito e quindi accettato di quel ragazzo che hanno ammazzato di botte, è che la Resistenza può organizzarsi in forme che la loro fibra morale, di gente ligia al potere e allo scaricarsi reciproco delle responsabilità, non può e non conoscerà mai. Che pure un drogatello può compiere gesti morali complessi e capaci di segnare per sempre la vita di una nazione. Che pure il popolano qualunque, con una famiglia qualunque, con una vita qualunque, quella mostrataci dalle quattro sequenze iniziali, può mettere in luce le contraddizioni di un Sistema. E se anche Cucchi non aveva previsto tutto, ci ha pensato Ilaria (e chi si è stretto attorno a lei) a configurare in una maniera universale il suo gesto estremo. Cucchi in altre parole ha rivendicato la violenza fatta su di sé e l'ha eletta a condizione significante della sua vita. Ha dato un senso profondo e politico al suo trauma, tingendolo di sarcasmo e disprezzo di sé e della sua incolumità. Quello che non hanno valutato gli animali che lo hanno calciato a morte è che la mente ha modi imprevedibili di reagire all'ingiustizia condita in salsa "macelleria messicana". Il modo scelto da Cucchi ora è anche Letteratura, non più solo battaglia politica. E a chi ha scelto di farne un film così sfaccettato, filosofico, provocatorio e doloroso, non possiamo che fare i nostri complimenti.