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RICORDI? regia di Valerio Mieli

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Terry Malloy     8 / 10  29/03/2019 13:37:34Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il magnifico, come da voto, film di Valerio Mieli, e interpretato altrettanto magnificamente da Linda Caridi e Luca Marinelli, necessiterebbe almeno altre due visioni, per avere chiara la complessità dei dettagli e dell'operazione messa in atto da questo nuovo, promettente, regista-scrittore-evocatore di fantasmi.
Il fatto è che questo film mi ha diviso la percezione estetica (e quindi l'apprezzamento) in due: da una parte ho amato la complessità pittorica dell'evocazione continua, estremizzata, contrappuntata dei ricordi di questi due amanti, rigonfia di dettagli, come se fosse una partitura musicale, o un testo letterario di un grande scrittore della tradizione (il Calvino del Barone Rampante). Immagini che vengono da lontano, questo artista ha uno spirito antico ma fragile, la scena del nonno issato sull'albero, o del ricordo che si intromette nella storia pur appartenendo a un altro momento della vita del protagonista, il momento con la Grecista e il Santone parlato in latino ("ma anche io gli parlavo in latino?", scena enorme) è una perfetta fenomenologia amorosa (a chi non è capitato di sovrapporre i ricordi?). D'altronde questa è una storia di sovrapposizioni, di vite che si colgono in un momento e poi si perdono su strade tangenziali, come la stupenda immagine che segna il finale, quella fantasia di note rappresentate sullo schermo, due vite che nel punto in cui si incontrano (nonostante il filtro soggettivo dei nostri ricordi, intrecciati alla personale visione del mondo, intesa come visione coloristica) sono già destinate a separarsi, nonostante il tentativo titanico di resistere alla forza devastante ed entropica del Desiderio.
Il tentativo dell'autore di parlare di ricordi, intrecciando questa tematica iper-letteraria (i riferimenti sono Fellini, Sorrentino, Calvino, Proust, ma soprattutto Siti) a quella del desiderio (e qui sta il nesso con la poetica sitiana) è riuscito in parte, perché la storia non sempre è all'altezza della potenza innovativa del visivo, anche se il cinema è l'arte che si occupa di questa difficile trasposizione. Apprezzo sempre lo sforzo di coniugare cinema e letteratura, ma non sempre riesce del tutto, perché se la letteratura scava in profondità, il cinema è obbligato a rappresentare la superficie della vita e del sentimento, e la storia che fa da motore deve essere all'altezza. Invece, in più di un momento il protagonista maschile perde i suoi contorni, tocca una depressione, che diventa però ansia da prestazione e soprattutto una deludente cecità verso le esigenze della sua amata, scadendo nell'infantilismo. Non è una critica alla vitalità contorta del personaggio, ma a una scrittura che cede sbrigativamente all'imperativo di ordinare una materia confusa (e magistralmente descritta: i ricordi, appunto) nei rigidi schematismi di una storia d'amore che finisce: le tappe sono forzate (loro che prendono la casa - la morte del padre di lei - la fragilità del maschio rispetto alla forza coesiva della femmina - la separazione - i tradimenti - l'incontro con l'amore d'infanzia - il ritorno) e i personaggi che fanno da contorno sono pochi e troppo meccanici, l'amico-nemico Marco è fin da subito palesemente inscritto nel suo ruolo di rivale, una buona sceneggiatura non deve suggerire così platealmente quali sono i ruoli. E' nella scrittura della trama e dei personaggi che il film difetta maggiormente, ma è un "errore" che rende questo film positivamente imperfetto e non quel capolavoro mostruoso che si intravvede qua e là, facendo pregustare già il prossimo film di questo regista. Sommergere lo spettatore con il flusso tormentato della vita e dell'amore è un compito rispettabile per uno che si voglia definire cineasta, e non bisogna dimenticare le maestranze, quasi interamente femminili, che rendono questo film un film femminile davvero, senza infiltrazioni ideologiche, ma con quello "sguardo" di cui tutti parlano, ma che nessuno sa davvero cosa sia: in questo film si è realizzato pienamente, e Linda è colei che trascina questo film oltre lo stereotipo incarnato da Marinelli, che pure, essendo un attore gigantesco, riesce a renderlo tenero e vero, nonostante tutto. Il maschio, ossessionato dalla bellezza, quindi depresso, talvolta eccede nel mauditismo, perde la donna che ama per cattiveria, e la sua cattiveria non è mostrata nei contrappunti di debolezza, e questo perché la scrittura è debole, non vediamo null'altro che la sua ossessione durante lo svolgimento, un errore che per esempio Sorrentino ha evitato nel modellare il personaggio di Jep Gambardella, un altro ossessivo del cinema recente, ma la cui poliparadigmaticità ottocentesca (Jep è tante cose, a seconda dei contesti in cui si trova) salva dalla noia di una contemplazione immobile che rende il personaggio marinelliano troppo immobile e respingente, troppo debole e cinico, al confronto con la complessità più sfumata del personaggio femminile. Il suo ritorno dalla donna rossa è patetico, anche se la fotografia magnifica riesce ad ammantarlo di tenerezza. Non c'è alcuna perversione reale in questi personaggi, non c'è una vera profondità (se non in alcuni momenti del passato, fotografati fugacemente), resta una grande paura di amare, che però viene consumata dal tempo, che fa riemergere i ricordi belli e solo quelli (un tema già anticipato dalla Grande Bellezza e che è la materia del primo dialogo tra i due amanti). L'idea che una storia d'amore sia un testo, e non una scultura, che il dialogo iniziale tra i due protagonisti racchiuda tutto il senso di quel che viene dopo, è un'ottima intuizione, ma è abbandonata a se stessa, perché lo svolgimento è prevedibile, e i momenti di orrore che i personaggi sperimentano arrivano al momento giusto, troppo giusto. E' un film statico, privo di un ritmo definito, nonostante l'ottimo contrappunto musicale. Statico come i ricordi, ma non dinamico come i pensieri, è il pensiero in un film è il respiro, il movimento dato dalla sceneggiatura, ma questa non è una sceneggiatura, è un copione, un impromptu teatrale, in cui tutti possono riconoscersi, ma che non arricchisce immaginativamente le nostre vite, ci conferma una tesi fenomenologica dell'amore: che dell'Altro, dopo un po' ci si stanca, specie se i primi momenti sono belli e il dolore è la forma che l'amore assume una volta superata la botta iniziale (metafora stupefacente). Non ci piove che è un grande film, ma il difetto dei film italiani è che sono visivamente spesso impeccabile, ma mancano di una scrittura forte, che è la base concettuale su cui si organizza il lavoro, peccato originale di una tradizione neorealista (e quindi povera, sia di materiale che di scrittura) e poi di commedia realista, e poi di cinema dei sentimenti e formazione ("ragazzo che cresce, ragazza che cresce"), di una tradizione culturale che tratta gli sceneggiatori come pisquani pantofolai (se ne veda la rappresentazione in "Boris"), che non punta sulla struttura, ma sull'Immagine, come se l'immagine in movimento fosse una galleria di quadri impressionisti, come se il cinema fosse museo, come se le storie fossero le storie di tutti e non di un singolo creatore, abituato a strutturare la propria materia, a renderla imprevedibile e accattivante, e quindi lode a Mieli per essersi ispirato alla grande letteratura (contemporanea e moderna), ma il lavoro che c'è da fare è ancora tanto, destrutturare, divergere, riscrivere, stupire e disattendere le aspettative, essere maghi, non solo grandi pittori.