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L'OCCHIO CHE UCCIDE regia di Michael Powell

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amterme63     8½ / 10  23/04/2012 18:30:37Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Davvero uno dei capolavori dell'inquietudine. Del resto Powell è sempre stato un grande regista, uno che riusciva a tirare fuori inquietudini, intense e profonde emozioni anche da semplici favole o da opere liriche o letterarie. Nei suoi film c'era quasi sempre un'atmosfera un po' artificiale, un po' claustrofobica, a volte quasi eccessiva, che rendeva le sue opere emotivamente molto potenti.
"L'occhio che uccide" è forse il suo capolavoro. Anche qui conta molto il fatto di avere girato quasi tutto in studio, di aver giocato moltissimo con le luci e le ombre e infine il sonoro che amplifica l'effetto delle scene.
Powell è sempre stato un regista "di genere", anche qui la mira iniziale era quella di girare un film di genere thriller piuttosto "hard", come se ne facevano allora con successo in Inghilterra. Solo che Powell, grazie al potere evocativo dell'arte in generale, è sempre andato al di là dei generi, per attingere direttamente alle parti "sensibili" dell'animo umano. Per esempio l'incipit è così esplicito e angosciante, da marchiare indelebilmente tutto il film. Il senso di angoscia, di insicurezza, di disturbo e di disagio non molla mai per tutto il film e contrasta con le ambientazioni, le scene, le azioni del tutto normali e convenzionali.
Ecco il grande potere del film: quello di avere messo al posto della figura spesso posticcia ed estrema del serial killer uno di noi, un essere sensibile, vivo, un personaggio in cui ci viene spontaneo identificarci.
Ecco quindi che un comune spettacolo thriller diventa invece la discesa nei meandri umani più reconditi, nei traumi dell'infanzia, nelle ossessioni strazianti, nelle battaglie per dominare gli istinti, buoni propositi inevitabilmente destinati alla sconfitta.
Powell riesce a scodellarci uno dei primi documenti che svelano il potere subdolo dell'immagine, ci fa vedere in maniera pubblica ed evidente i nostri lati "peggiori", come questi si esplichino lo stesso in maniera figurata, grazie alla civiltà dell'immagine. Mark è la parte estrema e patologica di un sentimento che tutti noi portiamo dentro: la voglia di assistere agli atti più atroci, la morbosa curiosità di vedere e assistere alle paure estreme, alla morte. Si tratta di un'attitudine antica quanto l'uomo (le esecuzioni in pubblico) e che la moderna civiltà non ha assolutamente cancellato, ma che ha invece riproposto in forme sofisticate.
In qualche maniera il film ce lo sbatte in faccia in maniera brutale e sofferente allo stesso tempo. Tra l'altro mai serial killer era stato ritratto in maniera così delicata, pudica, simpatica, impersonato addirittura da un attore che poi reciterà in Sissy. Siamo portati addirittura a provare pietà per una tale persona (come prima solo in "M" era stato fatto) e comunque a considerare in maniera più complessa gli istinti dell'animo umano.
Peccato per alcune sbavature di sceneggiatura. Non sempre i personaggi si sono comportati in maniera credibile o conseguente. Troppo debole e "facile" il ruolo della polizia. Piccoli difetti, comunque, in confronto all'immensità del ritratto dell'animo di un serial killer, di uno di noi.