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HAGAZUSSA - LA STREGA regia di Lukas Feigelfeld

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Jolly Roger     7 / 10  04/06/2021 12:58:53Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi


FORTEMENTE SPOILEROSO E AMMAZZAFILM - SPOILER ANCHE SU THE WITCH

Il comparto tecnico, come molti sottolineano, è impressionate. Il film se la gioca a carte pari con the Witch, forse in alcuni punti è persino superiore: l'insieme di fotografia, ambientazione e regia raggiunge vette magnifiche. Un esempio sono le inquadrature delle montagne avvolte dalle nubi, i rami degli abeti visti dal basso che si incuneano nel cielo e con le loro intricate trame assumono le sembianze di oscure prigioni che soffocano l'anima, le passeggiate lente e zoppicanti nella neve che mi hanno ricordato alcune inquadrature iniziali di The Hateful Eight, il fuoco finale che si accende e si staglia contro le montagne purificando il male che ha impregnato il corpo delle tre donne.
Inquadrature studiate con la ricercatezza degna di un Sorrentino Delle Montagne, che riescono a trasmettere la lentezza e l'immobilità della montagna, la possanza dell'ambiente naturale in cui noi piccoli umani ci muoviamo come pidocchi, come i vermi che si cibano di funghetti, mentre con occhi vuoti ed ebeti - come quelli dei caproni - osserviamo gli eventi che si stringono attorno a noi, condannandoci al rogo, vittime dei nostri peccati.
Vittime del peccato originale, vittime di essere nati da una strega, vittime dell'incapacità di vivere in una comunità accettandone le regole (anche quelle più sbagliate), vittime del continuare a peccare ai margini del villaggio, diventando bersaglio delle angherie e dei fanatismi della plebe.
C'è chi vuole restare ai margini perché è vittima di sé stesso e chi viene posto a margini perché è vittima degli altri. Difficile, spesso, che queste due cose siano totalmente separate; il più delle volte, voler capire se l'isolamento nasca dall'essere esclusi dagli altri oppure da auto-esclusione è come domandarsi se sia nato prima l'uovo o la gallina. Qui la condizione di isolamento della povera Albrun è inziale, è naturale, è "materna", poiché Albrun nasce in questo contesto, cresce in questo contesto, ereditando una condizione di solitudine e di supposta "stregoneria" che appartenevano a sua madre e che si sviluppano in lei come una condizione naturale ed inevitabile. Condizione che non trova via d'uscita né comprensione da parte degli abitanti del villaggio, che ancora di più la escludono e l'additano, le tirano sassi, la insultano, la disprezzano.
E anche laddove ella sembra trovare comprensione ed accettazione, nella figura dell'amica Swinda, trova in realtà soltanto spregevole inganno: la finta amica Swinda penetra nella sua vita come una serpe, come una mela avvelenata, per conquistarne la fiducia per poi approfittarsi di lei, fino a condurla ad essere stuprata da un uomo del villaggio. Come se lo stupro fosse la cosa più normale del mondo: stuprare e uccidere sono un crimine e un peccato, ma non se si stupra e si uccide una strega. In una parola….il male verso i fedeli è un male, ma il male verso gli infedeli non è un male.
Gli infedeli sono bestie: "ti prendono come le bestie…e dopo nove mesi ci si ritrova a cullare un bimbo nato da loro", perciò non un bimbo innocente, ma infedele come loro, bestia come loro. In questa frase c'è un elemento essenziale per capire questo film: da un lato, la doppia morale dei paesani (gli infedeli stuprano, ma la stessa cosa fatta dai paesani ad una presunta strega non è uno stupro). Dall'altro lato, la maledizione, che sembra trasmettersi di generazione in generazione in modo biologico, dove la madre (infedele e strega) trasmette la propria infedeltà e stregoneria alla figlia Albrun, la quale a propria volta passerà questa condizione alla bimba: da notare, infatti, che la bimba piange quando la madre riceve in dono la mela da Swinda…come se la bimba avesse un potere soprannaturale ereditato dalla nonna (della quale porta lo stesso nome, Marta) cioè il dono di percepire il male, di riconoscere i cattivi intenti della paesana Swinda.
Swinda che, in fin dei conti, è la vera strega del racconto, in tutti i sensi: è colei che porta la mela avvelenata, colei che la inganna, che la tradisce. Colei che, a prescindere da tutti i bei discorsi di integrazione, dai favori, dai discorsi sull'infedeltà, si comporta poi nel modo più osceno, non soltanto nel condurre Albrun nelle fauci dell'uomo del villaggio (e qui Swinda agisce proprio come una strega, che porta in dono una bella fanciulla ingenua al Diavolo con le sembianze un maiale, qui rappresentato dal paesano pingue con lo sguardo bramoso e poco intelligente). Ma, soprattutto, tiene lontana Albrun da casa, nel momento in cui il gregge di lei viene devastato dal "gregge" dei crudeli paesani.
E da questo momento in poi, il delirio sopraggiunge nella mente della povera Albrun. Difficile distinguere quanto sia causa del fungo allucinogeno, quanto dalla fame e spossatezza, e quanto sia causa del senso di colpa che tortura la giovane donna. Fatto sta che da quel momento in poi lei acquisirà consapevolezza della cattiveria umana e cercherà vendetta in modo turpe, avvelenando il ruscello che alimenta il paese con un topo morto sul quale piscia sopra, quasi come in un rito satanico (e dopo si vedranno vittime nel villaggio: la vendetta ha funzionato? Forse sì, e certamente non c'è traccia di pentimento nel cuore di Albrun).
Allo stesso tempo, la sua mente viene distrutta dai sensi di colpa. L'essersi abbandonata ai sogni erotici, alla masturbazione, ma soprattutto al rapporto sessuale con l'uomo-verro sembrano scatenare in lei il delirio della colpa: come se incolpasse sé stessa per la strage delle capre, in quanto la ritorsione dei paesani è avvenuta in un momento in cui lei ha colpevolmente lasciato incustodita la casa e si è abbandonata al piacere dei sensi. Quello stesso senso di colpa che a volte provano le donne stuprate: incolpano sé stesse per essersi messe nella condizione in cui qualcuno si approfittasse di loro, anziché incolpare questo qualcuno che di loro si è approfittato.
La mente scossa inizia a vacillare pesantemente: il fungo allucinogeno ha una forma fallica. Lei lo pone sulla lingua e lo assapora, in una scena fortemente evocativa e morbosa. Come se l'allucinazione fisica provocata dal fungo fosse una metafora dell'allucinazione schizofrenica provocata dalle prime pulsioni sessuali inizialmente represse, alle quali poi si è colpevolmente abbandonata venendo meno al dovere di custodire il gregge.
Questa è seconde me l'unica plausibile chiave di lettura del film secondo me: il delirio, la schizofrenia, o meglio ancora: la depressione. Sono convinto che questo film voglia rappresentare, in un'ambientazione medioevale, il male esistenziale più grande: la depressione, vestendolo di stregoneria (qui intesa come maledizione iniziale, come volontà di isolamento, come abbandono lussurioso e come ipersensibilità della protagonista).
Depressione che porta spesso le madri (o i padri) ad uccidere i propri figli, poi ad uccidere sé stessi. Come se i figli rappresentassero una colpa (la bimba è forse nata dallo stupro di un infedele? E' quindi anch'essa infedele?) o un peso (come poter badare ad una bimba quando non si ha più niente nemmeno per sé stessi?) o un fallimento esistenziale (non essere in grado di poter provvedere a loro, quindi ucciderli per evitare loro ulteriori sofferenze).
Senso di colpa, isolamento, stupro, depressione e auto-distruzione.
L'uccisione della figlia rappresenta, nel suo significato più profondo, l'uccisione di sé stessa. Una sorta di cannibalismo: lo stesso cannibalismo mostrato dalla "nonna", dalla madre di Albrun, nella terribile scena in cui, nel letto, la madre annusa il profumo della figlia, quasi a volerla mangiare. Un destino, quello dell'autocannibalismo e autodistruzione, che si trasmette di madre in figlia, quasi come se questa condizione fosse l'unica, inevitabile fine della loro discendenza, fin dall'inizio. Una inevitabile morte scritta fin da principio nel destino della "nonna", protrattasi per discendenza nella figlia e poi dalla figlia alla figlia. Tre donne, congiunte dal loro inevitabile destino: morire, autodistruggersi, eliminare la propria colpa, il loro peccato originale, il loro essere streghe, il loro isolarsi dalla comunità.
Su questo tema del peccato originale si apre un mondo, anche perché il film trae profonda ispirazione, non solo ambientale ma soprattutto concettuale, da The Witch. Nel famoso film, il peccato originale era quello del padre, che, per superbia, pretendeva di essere l'unico a comprendere il significato delle Scritture e, carico di orgoglio, si allontanava con sprezzo dalla comunità. Da questo atteggiamento iniziale si dipanava una serie di conseguenze che avrebbero poi trascinato l'intera famiglia nella disgrazia, portando alla pazzia la madre, alla morte anche i membri più piccini, fino a distruggere lo stesso padre e a portare la figlia adolescente nelle grinfie del Diavolo (o della prostituzione…?). Anche i membri più innocenti, i bambini e la neo-strega, finivano per essere schiacciati dalla macchina delle conseguenze di un peccato originale che ricadeva dal padre ai figli, poco importa se fossero innocenti o meno…perché la colpa si trasmette di padre in figlio, così come il sangue ricade dalle mani dei padri sulle teste dei figli.
In Hagazussa è lo stesso. Nemmeno l'innocenza di una bimba di pochi mesi viene risparmiata dalla maledizione della nonna. Tre donne che si ricongiungono attraverso la morte, che realizza un destino già scritto irrevocabilmente in capo alla nonna: una strega, in quanto isolata dalla comunità, destinata a morire da sola. Un destino di autodistruzione che si concretizza nel cannibalismo della madre nei confronti della propria figlia, come a voler disintegrare la propria sé stessa, ovvero la propria discendenza, sotto l'influsso delle vuote orbite del teschio della nonna e delle allucinazioni auditive in cui la nonna, come una tessitrice, tira le fila del ricongiungimento finale nel rogo.

Chiudo dicendo che Io vengo da zone alpine a spesso faccio gite in montagna. E' incredibile come l'insieme di regia, ambientazione, fotografia e ottime musiche siano riuscite a rendere tetro ed opprimente un ambiente normalmente così bello e gioioso.
Pur considerando tutti i significati ed i pregi detti sopra, il film non può andare oltre il sette – che forse è già un po' troppo: Hagazussa resta un film a tratti eccessivamente lento, pessimista, troppo ermetico e cupo, difficile da masticare anche per i palati più forti. Restano, però, le emozioni che ha trasmesso.

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