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DETROIT regia di Kathryn Bigelow

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Invia una mail all'autore del commento tylerdurden73     7½ / 10  15/03/2018 11:03:22Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Memore dei suoi più recenti lavori Kathryn Bigelow trasforma la Detroit del 1967 in un campo di battaglia, in cui la guerriglia urbana impazza documentata da montaggio frenetico sommato a regia nervosa con camera a mano. È puro antefatto quello dei riots con relativi sciacallaggi e tolleranza zero da parte di autorità messe sotto pressione, ma incapaci di gestire la situazione destinata a degenerare abuso dopo abuso.
Basta quindi uno stupido quanto innocente gioco per innescare la miccia, animi già surriscaldati a dovere si riversano nell' hotel Algiers dove va in scena la parte centrale, quella più lunga, cruda e insostenibile.
A Bigelow non interessare analizzare la rivolta e approfondire più di tanto le cause scatenanti, il suo è puro cinema politico innervato all'interno di un sistema in cui la ghettizzazione diventa risoluzione errata, in cui le violenze psicologiche e soprattutto fisiche subite da vittime innocenti dimostrano le difficoltà di un paese in cui la pacifica mescolanza razziale è pura utopia. È un odio che cova da sempre, ed infatti i riferimenti all'attuale politica americana non sono certo casuali, bensì frutto di riflessioni semplici, in cui basta esporre i fatti per capire da quale parte stare.
L'attacco è frontale, diretto, anche in una seconda parte in cui, lungaggini a parte, il caos regna: quello di vittime talmente traumatizzate da non saper ricostruire in maniera inattaccabile i fatti, quello di aguzzini in cui l'embrione del male ha attecchito senza una particolare motivazione razzista, in quella che più verosimilmente è una visione primigenia di dominazione a prescindere.
"Detroit" è un quadro corale fatto di tante voci e suggestioni, scontro fomentato da incomprensione reciproca in cui l'azione predomina sulla riflessione, dove la violenza prende piede in un contesto alienato, in cui i tumulti cittadini sono semplice eco. Il sopruso diventa così retaggio di una controcultura probabilmente impossibile da estirpare, buono per essere adottato ovunque la situazione limite lo permetta.