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CINQUE PEZZI FACILI regia di Bob Rafelson

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kafka62     8 / 10  02/02/2018 14:11:07Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
In un bel film di Ingmar Bergman datato 1968 e intitolato "La vergogna" una coppia di ex violinisti si rifugiava in una piccola isola (la Faro così cara al regista svedese), in una scelta radicale di individualismo e di autoesclusione dai problemi contemporanei (invano, perché la guerra, come un incubo che non lascia scampo, li andava a stanare proprio nel loro eremo, risucchiandoli nel vortice dell'orrore). Un'isola per molti aspetti analoga ritorna, anch'essa con un significato simbolico di separazione dal resto del mondo, in "Cinque pezzi facili" (di due anni successivo all'archetipo bergmaniano), dove rappresenta il provvisorio punto d'arrivo di un emblematico pellegrinaggio che il protagonista, Robert Dupea, compie alla ricerca delle proprie radici e, attraverso queste, della propria identità. E' stato più volte messo in evidenza dalla critica il debito che Rafelson ha nei confronti di Bergman, ma ammesso che questa considerazione sia corretta (il regista, da parte sua, ha sempre rifiutato una simile paternità), essa è tutt'al più valida solo con riguardo all'ultima parte del film.
"Cinque pezzi facili" ha infatti una struttura che può essere suddivisa in tre sezioni sufficientemente autonome e distinte tra loro, sia dal punto di vista stilistico sia da quello narrativo. La prima è ambientata in una oil town californiana che ripropone, come in certe commedie shepardiane, una ben nota iconografia esprimente squallore, disagio e provvisorietà: anonime case prefabbricate, snack bar dalle insegne al neon, pozzi petroliferi che si ergono tetramente nel deserto come croci di cimitero, musica country insulsa e zuccherosa e onnipresenti lattine di birra. Il senso di grigiore esistenziale è accentuato da una fotografia sporca, volutamente poco curata (a tratti, specie in alcuni campo-controcampo, perfino dilettantesca). L'andamento dimesso e prevedibile da tipica commedia western della provincia americana è però smentito dal personaggio di Robert, che appare chiaramente fuori posto con persone e cose fin dai primi, laconici fotogrammi. Di Robert viene dato all'inizio un ritratto prevalentemente fenomenologico, risultato di una meticolosa opera di osservazione dei suoi comportamenti quotidiani: egli è irrequieto, insoddisfatto, scostante, spesso insolente, insofferente della stupidità e della sciatteria della sua ragazza, Rayette (che pure lo ama), ma poi disposto a buttar via le proprie serate con una coppia di amici ancor più rozzi e volgari. Si intuisce agevolmente che sotto la superficie del personaggio c'è un carattere assai più complesso di quello che appare: per picoli cenni si viene a sapere che sa suonare il pianoforte e che proviene da una agiata famiglia di musicisti (della quale conserva una certa aristocratica arroganza ed una stanca superiorità intellettuale).
La tecnica adottata da Rafelson e dallo sceneggiatore Adrien Joyce è quella dello svelamento progressivo: la figura di Robert Dupea prende corpo lentamente, senza fretta. Ciò che interessa ai nostri autori in questa fase del film è soprattutto far reagire il protagonista con l'ambiente che lo circonda e registrarne gli effetti e le risposte, anche se gli scarsi elementi psicologici rintracciabili non rendono ancora questi effetti e queste risposte sufficientemente rivelatori. Così tutta la prima parte è fatta di brevissime, nervose sequenze, che saltano ellitticamente dal mediocre ménage di Robert e Rayette allo squallido lavoro ai pozzi agli ancor più deprimenti divertimenti del tempo libero (il bowling, la TV). E' una parte eminentemente enunciativa, priva di una attendibile e coerente funzione narrativa, tanto è vero che ben presto gli amici escono senza troppe spiegazioni di scena e la gravidanza di Rayette (che sembra essere uno dei motori della storia) non viene più neppure nominata. Queste apparenti contraddizioni e inverosimiglianze non devono però trarre in inganno. In una intervista rilasciata ad Anna Maria Tatò (Cinemasessanta, n. 114-115 del 1977), Rafelson ha infatti esplicitamente dichiarato: "Io seguo una logica psicologica, più che narrativa. E non mi interessa sapere che cosa rappresentano e quale sia il senso dei miei film, non mi interessa sapere come si concludono: è una provocazione che resta un interrogativo continuo!". Questa logica psicologica fa sì che quanto appare narrativamente importante all'inizio possa venire nel prosieguo trascurato e subordinato a una costruzione esclusivamente interiore, senza che per questo l'equilibrio della sceneggiatura venga compromesso.
La seconda parte della pellicola ha i toni classici del road movie, di cui utilizza con efficacia molti stereotipi. Innanzitutto, il personaggio di Robert ha in comune con il traveller della tradizione cinematografica americana il fatto di essere un uomo selvatico e malinconico, esasperatamente individualista (Rayette e i suoi amici gli sono tutto sommato estranei, occasionali compagni della sorte) e costituzionalmente insoddisfatto della propria vita: il tipico personaggio che cambia continuamente posto ma in nessun posto si trova a suo agio, e da questa scontentezza trova nuovi motivi per continuare a spostarsi, a viaggiare. Nel film c'è un pretesto (la grave malattia del padre) che lo induce, sia pure controvoglia, a far ritorno a casa, ma non è difficile credere che Robert, dopo aver abbandonato l'odioso lavoro, avrebbe comunque e in ogni caso fatto le valigie e lasciato senza rimpianti la California. Una seconda costante è lo stile sincopato, contrappuntistico, nell'uso della macchina da presa, che intercala brevi sequenze all'interno dell'automobile a campi lunghi della macchina in movimento, ritmati da una allegra musica country. Infine, a suggellare il carattere di road movie di "Cinque pezzi facili" vi sono i due incontri emblematici, quello con l'ecologista paranoica in viaggio verso l'Alaska (dove spera di riuscire a sfuggire la "*****" con cui ha identificato l'intera società contemporanea dei consumi) e quello con la testarda cameriera dell'autogrill, che si rifiuta di servire combinazioni di cibi che non siano rigorosamente previste nel menu. Entrambi questi incontri, paradossali e tragicomici, servono a far venire alla luce il malessere esistenziale di Robert: è evidente ormai che nel suo viaggio non c'è nulla di liberatorio (a differenza di molti altri road movies), perché egli è perseguitato dalle propaggini di una società e di un sistema nei confronti dei quali (sia che si tratti della cultura dominante tendente ad omologare e standardizzare uomini e idee, sia che si tratti della controcultura alla moda, nel caso di specie l'ecologismo) è ugualmente disgustato. Il viaggio, si intuisce, non è un'esplorazione, una ricerca positiva, ma una fuga da tutto e da tutti che rivela un'ansia di annullamento e una disperazione ontologica, assoluta.
Arriviamo così alla terza parte, quella che, si è detto, ricorda nell'impostazione un raffinato film da camera di stampo bergmaniano. Qui prevalgono i primi piani, le atmosfere elegiache e rarefatte, i movimenti di macchina lenti ed elaborati: nella bellissima sequenza in cui Robert suona a Catherine una sonata per piano di Chopin (i "cinque pezzi facili" del titolo), la macchina da presa perlustra con elegante e studiata meticolosità l'intera stanza, soffermandosi su oggetti e fotografie così ricchi di proustiane risonanze della memoria, e tornando al termine dell'esecuzione al punto da dove era partita. Anche i toni della fotografia sono più morbidi e chiaroscurati che all'inizio, e il dècor non è più ritratto in maniera iperrealisticamente distante e superficiale ma diventa un luogo scenograficamente importante. Il ritmo infine non è più disordinato e casuale, ma i personaggi si confrontano tra loro in dialoghi e scene costruite con maggiore ricercatezza formale, in momenti "alti" che fissano paradigmaticamente la profonda crisi di Robert.
Il ritorno a casa di Robert può essere interpretato come un viaggio psicanalitico all'indietro, verso il mondo dell'infanzia, che si palesa però come scoperta dell'irrecuperabilità della primigenia innocenza perduta. L'armonia nella quale vive la famiglia di Robert è infatti un illusorio paradiso artificiale, e la musica una droga con cui i suoi componenti sfuggono le contraddizioni del presente e la conflittualità della realtà. Nella splendida scena in cui Robert, bloccato in un ingorgo stradale, pianta l'automobile in mezzo alla strada, sale su un camion da trasloco e, scopertovi un pianoforte, comincia a suonare una fantasia di Chopin, mentre l'automezzo si allontana lungo una strada secondaria completamente deserta, è racchiuso con una efficacissima immagine simbolica (traffico = caos della vita; musica = fuga dalla realtà) il significato della scelta di vita dei suoi familiari e del rifiuto di Robert (anche se qui esso appare nella forma del suo contrario, vale a dire dell'infantile capriccio di abbandonarsi oniricamente a questa allettante, odiata-amata, chimera). Robert ha passato la sua giovinezza in questo ambiente arcadico e ovattato, ne ha intuito la falsità e ha trovato il coraggio di fuggire, azzerando in un sol colpo un futuro già prestabilito. Ossessionato da un assillo di perfezione, ha preteso di perseguire nella vita vera la ricerca dell'autenticità, finendo per scontrarsi però con la volgarità e la sordidezza della realtà. E' indubbio che egli sia un eroe, atipico quanto si vuole ma pur sempre un eroe, almeno nella comune accezione di colui che si distingue per qualità e spirito di sacrificio al servizio di un nobile ideale: il fatto è che Robert questo ideale non lo conosce, forse non lo può conoscere perché – come sembra suggerire Rafelson – il tempo degli ideali semplicemente non esiste più, e allora il suo destino è quello dello sconfitto, incapace com'è di trovare uno scopo tanto nella vita simulata dell'artista (Catherine) quanto nella vita "vera" dell'uomo comune (Rayette). La sua amarissima confessione al padre muto ("Io mi sposto di continuo, ma non perché stia cercando qualcosa di particolare, ma perché mi allontano dalle cose che vanno a male se io rimango. Sembra che tutto prometta bene all'inizio, ma poi…") è l'impietoso riconoscimento di questo disorientamento e di questa sconfitta, l'unico singhiozzo di un film che per il resto rifugge da ogni tentazione di autocompassione.
A un secondo livello di interpretazione, il film descrive lo smarrimento e la crisi di un'intera generazione, l'impossibilità di un ritorno alle radici mitiche, al sogno whitmaniano di un'America che (come il padre di Robert) non ha ormai più nulla da dire ai suoi figli. Come tale, "Cinque pezzi facili" è un film non solo psicologico (e psicanalitico) ma pure, a un livello per giunta non banale, sociologico e politico, anche se va detto che Rafelson si limita alla semplice enunciazione del problema, preferendo suggerire e proporre alla riflessione dello spettatore piuttosto che approfondire e analizzare in prima persona. Non c'è da dolersi più di tanto di questa scelta "riduttiva", tanto più che essa implica il rifiuto sia di un atteggiamento fastidiosamente intellettualistico sia della tendenza (così tipica del cinema europeo, ma anche del recente cinema americano, da Allen a Kasdan) di autocommiserarsi, di piangersi addosso, sia pure con una certa dose di ironia. Rafelson registra sì la vacuità e la putrefazione del mondo intellettuale, ma dal di fuori (come dimostra la sequenza con la saccente psicologa da salotto), attraverso un procedimento di estraniazione e di superiore disincanto che (anche nella predilezione per i piani sequenza e i tempi morti) ricorda da lontano Michelangelo Antonioni.
Quello di Bob Rafelson non è forse un cinema "d'autore" in senso stretto: perfino in "Cinque pezzi facili", che a tutt'oggi resta di gran lunga il suo miglior film, non si ha modo di rinvenire uno "stile Rafelson" unico e inconfondibile, ma tutta una serie di influenze (cinematografiche, letterarie, pittoriche) che si mimetizzano molto bene in una regia che, se un'autonoma originalità può vantare, è soprattutto nel sapersi piegare con estrema duttilità alle esigenze della storia per estrarne accenti di profonda umanità e a tratti addirittura (mi si perdoni l'abusato termine) di poesia. Ho già avuto modo di evidenziare l'eclettismo della messa in scena di Rafelson: in essa c'è anche un notevole rigore formale, una scelta mai casuale delle inquadrature "giuste" (quando, ad esempio, Robert apostrofa l'odiosa intellettuale con un rabbioso "sei un sacco pieno di *****", il montaggio fa scorrere rapidamente sullo schermo le immagini dei volti attoniti dei presenti, chiudendo con una inquadratura collettiva che ha l'effetto di estendere a tutto il gruppo il giudizio di condanna), e soprattutto l'accortezza di non prevaricare mai sugli altri elementi del film: dalla musica ("…per i miei film, già prima di iniziare a girarli, ho bisogno di avere ben fissa in mente la colonna sonora – ha detto Rafelson in un'intervista -; ogni immagine deve essere accompagnata dal suono relativo ad ogni scena", e difatti la musica di Tammy Wynette da una parte e quella di Chopin, Mozart, Bach dall'altra scandiscono alla perfezione i vari passaggi della storia) alla scenografia (è stata già messa in evidenza l'esattezza con cui sono ritratti i vari ambienti) e agli attori.
La memorabile prestazione di Jack Nicholson meriterebbe da sola molte pagine di lodi: qui mi limito a dire che, gigioneggiando meno del solito e sfoggiando anzi una recitazione insolitamente misurata e intensa (anche se non mancano, naturalmente, i momenti "alla Nicholson"), egli ha lasciato nel film un'impronta indelebile. "Cinque pezzi facili" non poteva che avere Nicholson come suo protagonista: solo lui era in grado di rendere adeguatamente la volubilità, la canagliesca vitalità e l'umanità commossa (e commovente) di Robert Dupea. Il finale in special modo (con Robert che ripete a se stesso, con lo sguardo assente, "Sto bene, sto bene…" mentre un grosso TIR lo sta portando in Alaska, nell'ennesima riproposizione della sua condizione di fuggiasco) è bellissimo e avvicina Robert Dupea all'incancellabile mito del capitano Achab di Melville, come lui "non tanto diretto verso un porto a prua quanto fuggente da tutti i porti a poppa".