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GIORNI PERDUTI regia di Billy Wilder

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Invia una mail all'autore del commento Zazzauser     8½ / 10  06/11/2012 23:54:11Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Mi ingrossa il fegato, vero Ned? Mi brucia i reni eh? Ma che effetto fa alla mia mente? Scarica la zavorra e il mio spirito si libra in volo. Sono al di sopra di tutto mi sento bravo, molto bravo. Cammino su una fune sopra le cascate del Niagara, mi sento un grand'uomo. Sono Michelangelo che modella la barba di Mosé, sono Raffaello che dipinge il Dio, sono Paderewski che suona una rapsodia, sono John Barrymore prima che lo strangolasse il cinema, sono Giulio Cesare e Napoleone insieme."

Si dice che Wilder scrisse questo film per Raymond Chandler, con cui il regista ebbe modo di lavorare l'anno prima durante la stesura di "Double Indemnity". Lo stress accumulato durante le riprese fece riprecipitare lo sceneggiatore nel baratro dell'alcolismo, e "Giorni Perduti" fu il tentativo di Wilder di "spiegargli sé stesso" e porre rimedio alla sua dipendenza. E viene difficile pensare ad un modo più efficace di quello dell'angosciante vicenda di Donnie Birnam, giovane disoccupato di New York che nel cercare sollievo dai propri fallimenti come uomo e come scrittore trova rifugio nella bottiglia fino a diventare schiavo di essa.
Proprio quel "weekend mancato", che avrebbe dovuto passare col fratello Wick, diventa per il protagonista - un maiuscolo Ray Milland - un viaggio di rivalutazione, ma anche un trip allucinato negli abissi di quel suo vizio che non ammette vie di mezzo: la guarigione o la morte.
Tutti gli aspetti più deleteri della dipendenza - quella vera - da questa droga legalizzata vengono ben sviscerati sullo schermo. Gli autoinganni, le bugie, gli ostacoli nei rapporti sociali, il furto, la violenza, la tragica sofferenza dell'astinenza, ma soprattutto quell'effimero senso di onnipotenza che accompagna lo stato di ubriachezza. La vita di Don è una collezione di "giorni perduti" dietro all'alcool, di ore passate a vedere la propria vita spremersi fino all'ultima goccia proprio come il whisky delle sue amate bottiglie.
Gli Stati Uniti erano usciti da poco più di una decina d'anni dalla difficile era del Proibizionismo, e non è fuori luogo pensare ad una componente di denuncia nei confronti delle scelte di governo di quegli anni che invece di risolvere la situazione la peggiorarono (l'infermiere dell'ospedale che ricorda il numero esorbitante di ricoverati del decennio precedente).
Billy Wilder trasforma in oro tutto ciò che tocca. La sceneggiatura - scritta in collaborazione con Charles Brackett - è come al solito il punto forte, ben congegnata nel ricomporre le varie tessere della vicenda.
Volendo proprio trovare una macchia, ho trovato un po' superficiale l'analisi del rapporto fra il protagonista e la sua fidanzata Anne (Jane Wyman), che assume un po' troppo i connotati della ragazza dal cuore d'oro.
Un film straordinario, che porta sullo schermo un tema scottante per l'epoca e ancor oggi moderno con uno stile che rimane unico per sobrietà (pun intended) ed originalità.