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LE VERITA' SOSPESE regia di Pamela Romanowsky

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Elfo Scuro     5 / 10  22/10/2017 02:07:52Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
The Adderall Diaries, memoriale dello scrittore tormentato e dipendente da farmaci e droghe. Per anni incapace di concludere un nuovo romanzo, il protagonista è forzato a guardare dentro di sé quando il padre riappare all'improvviso e un caso di cronaca nera diviene lo specchio per analizzare la sua vita e il rapporto burrascoso con la figura paterna. Elliot quindi, riesce a completare il libro che diviene appunto, il racconto dell'assassinio mescolato alle sue vicende personali.
Opera prima di Pamela Romanowsky, che ha curato la sceneggiatura e diretto la pellicola, The Adderall Diaries è il racconto cupo di una redenzione, della presa di coscienza delle proprie responsabilità, di un viaggio dentro se stessi anche quando per arrivare nel profondo è necessario distruggere muri, ridisegnare scenari e smascherare vecchi sensi di colpa. Girato in un'attualissima Brooklyn (mentre il libro era ambientato a San Francisco), James Franco è un James Dean un po' hipster e un po' bohemien, perfetto scrittore maledetto, anima nera perennemente depressa, dedito alle droghe (Adderall è appunto un tipo di anfetamina che viene prescritto ai malati di ADHD) e al sesso a pagamento, fastidiosamente narcisista e rimasto intrappolato nell'ossessione dei propri traumi infantili. Il padre (Ed Harris) piomba nella sua vita, sconvolgendo la sua immagine pubblica, e facendo riemergere i fantasmi di un'adolescenza troppo mitizzata. Stephen trova conforto solo fra le braccia dell'affascinante Lana (Amber Heard), una cronista del New York Times, impegnata a raccontare il caso di cronaca a cui anche Elliott è interessato, perché convinto che potrebbe diventare per lui quello che "A sangue freddo" fu per Truman Capote. Immediatamente i due vivono una storia d'amore, piena di motociclette e tatuaggi, destinata a smorzarsi, come le sigarette che si fa spegnere sul petto.
Finché dura, infatti, la vita intima dei protagonisti invoca Cinquanta sfumature di grigio, facendo compiere alla pellicola una virata del tutto inaspettata. Le scene più forzate sono quelle in cui la coppia inciampa in tempistiche improbabili, oppure scivola clamorosamente in un eccessivo compiacimento del proprio autolesionismo.
Il gusto nascosto nel mostrare le turbe di Stephen, rivela un'indulgenza cupa e morbosa che distoglie l'attenzione dall'argomento principale. Solo alla fine affiora, come la punta di un iceberg, il fascino perverso e misterioso di The Adderall Diaries: la spietata franchezza con cui viene affrontato il tema della memoria. Generalmente lo spontaneo affiorare dei ricordi segue una logica riconducibile alle trame segrete dell'inconscio, funzionale ad una personale ricostruzione del passato. Cosa ricordiamo e cosa nascondiamo nell'oblio, in che modo la memoria seleziona eventi, dettagli, evoca o dimentica?
La storia del caso di cronaca - in cui l'imputato è interpretato da uno 'sprecato' Christian Slater - è lo specchio ideale per guardare in faccia il passato sovente inaffidabile e imperfetto; un caleidoscopio di sfaccettature necessario per rimirarsi e capire che a volte piuttosto che vittima si è stati carnefici. Elliott spala i chili e chili di fango, droghe e medicinali sotto i quali ha sepolto la verità, fino ad arrivare a chiedersi: "Fa più male il dolore che provochiamo o quello che subiamo?". Nel cercare un colpevole ai propri drammi esistenziali, quanto mentiamo a noi stessi? "Ti sei accorto dei particolari, ma non hai mai voluto guardare al grande quadro", dirà Neil (Ed Harris) a Stephen in un toccante dialogo padre-figlio. E sono i momenti con il padre quelli che elevano il racconto, ed innalzano l'interpretazione di Franco. Harris è perfettamente calzante, riesce a provocare rabbia e commozione nello stesso istante, è una bomba carica di frustrazione e compassione repressa.
Gli snodi più importanti della trama rischiano di perdere credibilità, o di scivolare nella banalità, forse per l'inesperienza della regista, o forse perché trasportare un libro sul grande schermo è sempre un lavoro di selezione e sottrazione. Una rielaborazione personale, che proprio come la memoria taglia, evidenzia, inverte, semplifica e ridefinisce, per costruire da capo una propria visione della realtà. E in questo caso, del libro.