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IL FIGLIO DI SAUL regia di Laszlo Nemes

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Invia una mail all'autore del commento tylerdurden73     8 / 10  08/11/2016 11:08:03Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
L'orrore dell'olocausto è stato rappresentato in tanti modi, sicuramente non comune quello adottato dall'ungherese Laszlo Nemes che pedina il suo protagonista restandogli attaccato al volto e lasciando, sfocati ma comprensibili, sullo sfondo, i particolari dell'abominio circostante. L'uomo è infatti prigioniero in un campo di sterminio nazista, impegnato nei sonderkommandos è obbligato ad occuparsi di accompagnare ogni giorno centinaia di deportati alle fatali docce prima e ai forni crematori poi.
Nemes fornisce il resoconto di giornate infinite a contatto con qualcosa di tremendamente crudele, che per lo spettatore resta uno spaccato indistinto eppure egualmente shockante, tra l'evidente vilipendio dei corpi, nell'ascolto degli ordini urlati di continuo, nel luridume, e nella notte di un inferno dantesco in cui i turni massacranti vengono rischiarati solo dalle fiamme deputate a ridurre in cenere i cadaveri.
Interpretato dal poeta magiaro Geza Rohrig, Saul sembra essere abituato a sopportare quella abitudinaria brutalità, almeno fino a quando si imbatte nella (presunta) salma del figlio. Urge riappropriarsi dell' umanità perduta con Saul deciso a dare degna sepoltura a quel corpo esanime, appiglio per dimostrare a se stesso di essere ancora capace di sentimenti nobili.
Diventa imperativo mondare il senso di colpa e la redenzione passa per la disperata ricerca di un rabbino in grado di recitare il Kaddish, anche a costo di mettere a repentaglio il piano di rivolta ordito dai suoi compagni di sventura.
Un semplice gesto, nel finale, riassume il senso del film. Lì si concentra l'unico momento liberatorio, capace per un attimo di far dimenticare gli orrori percepiti attraverso le urla provenienti dalle camere a gas o dai bagliori degli spari in prossimità delle fosse comuni. Trattasi di un sorriso, emblema assolutorio dall'aberrante ruolo di "spazzini", per uomini costretti a convivere con la morte nella flebile speranza di poterla beffare.