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IL PIANISTA regia di Roman Polanski

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kafka62     7½ / 10  25/03/2018 19:24:12Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Quello dell'Olocausto è diventato negli ultimi lustri un genere cinematografico talmente sfruttato da aver raggiunto ormai la saturazione. Si può ben immaginare perciò quanto di personale e di intimamente urgente Polanski, giunto al quarantesimo anno di carriera, debba avere intravisto nel soggetto de "Il pianista" per voler correre il rischio di scivolare nel risaputo e nel dejà vu. A giudicare dal successo riscosso al festival di Cannes del 2002 si può comunque dire che il gioco è valso pienamente la candela. "Il pianista" è un film estremamente tradizionale e, paradossalmente, poco polanskiano; potrebbe essere avvicinato, per la sua classica, hollywoodiana perfezione formale al limite dell'accademia, a "Schindler's list" se non fosse che Polanski non preme mai sui tasti della commozione e del sentimentalismo, preferendo invece puntare su uno stile secco, asciutto, poco emozionante, ricavandone quasi un reportage cronachistico sulla sopravvivenza di un uomo in condizioni estreme. Per fare un paragone più calzante con un altro film uscito in quegli anni, l'operazione fatta con "Il pianista" assomiglia a quella di Guido Chiesa con "Il partigiano Johnny", nel quale la concitata lotta per la vita di Johnny induceva a mettere in second'ordine il quadro generale della Resistenza, salvo poi recuperarne il profondo significato umano e morale. Allo stesso modo, le peripezie di Wladyslaw Szpilman, costretto a passare da un nascondiglio all'altro e ad assistere alla resistenza nel Ghetto e alla rivolta di Varsavia dall'angusto punto di osservazione di una finestra, fanno quasi perdere di vista la Shoah, almeno nel senso cinematograficamente più usuale e scontato, per privilegiare in sua vece un'ottica strettamente individuale, ma forse proprio per questo più reale e credibile.
Quello che emerge da "Il pianista", e che è forse il suo maggiore punto di merito, è il processo che, in fenomeni storici come quello della persecuzione degli ebrei, porta progressivamente a rendere banale e quotidiano l'impossibile. "Non può durare!", ripetono più volte i membri della famiglia Szpilman di fronte alle assurde violenze e ingiustizie perpetrate dai nazisti, sottovalutando quello che di lì a poco li travolgerà. Essi giudicano la Storia con logiche puramente razionali ed etiche, ma la bestialità dell'uomo non ha limiti, e così l'orrore a cui essa può condurre. La discesa agli inferi di Wladyslaw non è contrassegnata da colpi di scena clamorosi, ma da un inesorabile, e direi quasi inevitabile, perdita di umanità: perdita che, purtroppo, coinvolge tutti, vittime e carnefici, i secondi che uccidono senza discernimento e senza passione e i primi che sono costretti a passare accanto ai cadaveri come se niente fosse successo. Pensare solo alla propria pelle e disinteressarsi di chi ci è vicino è la più logica delle conclusioni per chi vive nel ghetto o nel lager, come ci ha insegnato tristemente Primo Levi. Ma il protagonista de "Il pianista", per sua buona sorte, trova ancora un po' di solidarietà intorno a lui (anche se, spiace dirlo, non è estraneo alla sua salvezza il fatto di essere un musicista famoso), e addirittura alla fine viene graziato da un ufficiale tedesco che rimane affascinato dalla sua arte. Segno che, anche in mezzo alle rovine (della città distrutta così come dello spirito violentato), è ancora possibile far trionfare il bene: dopo trent'anni, Polanski rovescia così il pessimistico finale di "Chinatown" per lanciare al mondo un insperato messaggio di speranza e di fiducia nell'umanità.