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IL FIGLIO regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne

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kafka62     7 / 10  26/02/2018 16:32:25Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Il figlio" è un film sulla paternità, nel senso che essa, a differenza della maternità basata sull'"essere", si concretizza nel "fare", o meglio nel "saper fare", e nel desiderio di trasmettere ad altre generazioni questo sapere. L'esperto falegname Olivier, nell'insegnare il suo mestiere a ragazzi "difficili" e disadattati, esprime proprio questa vocazione, e tanto più lo fa con l'ultimo arrivato che, caso vuole, è niente meno che il ragazzo, appena uscito dal riformatorio, che cinque anni prima gli aveva ucciso il figlio. Entrambi, uomo e ragazzo, hanno un vuoto, una mancanza (o meglio una "assenza") da riempire, e il rapporto che si instaura tra loro (poche parole e tanti gesti, appunto) è inequivocabilmente quello tra un padre e un figlio, magari adottivo (e a questo proposito mi viene da pensare che Geppetto, il padre adottivo per eccellenza – anche se raramente lo si è visto in questa ottica – non poteva che essere un falegname).
"Il figlio" è un film profondamente etico, anche se, a ben vedere, non c'è in esso un vero e proprio spirito di redenzione: il ragazzo non pare sinceramente pentito del delitto commesso (l'unico dispiacere è quello di avere trascorso cinque anni di reclusione), e l'adulto forse non lo ha veramente perdonato. Ma non importa, giacché, lungi dal raggiungere esiti tragici come un altro film di molti anni prima per molti versi analogo, vale a dire "Un borghese piccolo piccolo", "Il figlio" approda comunque a un rapporto di sofferta tolleranza e di testarda comprensione, fondato proprio sul reciproco riconoscimento della debolezza e dei limiti umani. Il che, in un'epoca di odi atavici, ritorsioni ineluttabili e logiche dell'"occhio per occhio, dente per dente", non è davvero poco.
Film più importante che bello, "Il figlio" da una parte rimanda a Kieslowski per l'assunto morale di partenza, dall'altra si iscrive nella tendenza lanciata da Von Trier con il suo Dogma di girare film "con la mano sinistra" (ossia cinepresa a mano, piani sequenza, niente musica, ecc.). C'è comunque un tratto personale nel modo di girare dei fratelli Dardenne: ed è in quella insistenza, a tratti persino fastidiosa (soprattutto all'inizio) di pedinare i personaggi, di far quasi sentire loro il fiato sul collo, di escludere l'ambiente circostante per concentrarsi sul loro ristretto campo visivo, a costo di correre il rischio (certamente voluto e calcolato) di fare entrare nell'inquadratura nuche, muri e altri oggetti che ostacolano la visione facendola spesso apparire sgradevole e anti-estetica. Anche con questi limiti oggettivi, quello dei due Dardenne è comunque un cinema da vedere e meditare.