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MIA MADRE regia di Nanni Moretti

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Terry Malloy     9½ / 10  06/06/2015 11:42:10Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Mezzo punto in meno perché non sempre la recitazione è all'altezza di questo film.

Che dire. Era da tempo che non mi commuovevo così. Neanche per "Amour", a cui quest'ultima fatica morettiana è intimamente legata. Nanni invidia positivamente la cura maniacale di Haneke nella descrizione dei meccanismi del dolore. Il dettaglio della psicologia introversa delle relazioni sottoposte allo stress della perdita. Ogni personaggio del film è uno spazio che confligge con altri spazi. Come metaforicamente il film di Margherita sembra suggerirci. Ho trovato questo film scritto meglio di quello di Sorrentino. Entrambi cercano di parlare della semplicità, della dimensione diacronica della vita interiore, della difficoltà di portare in arte ciò che invece alla mente è perfettamente chiaro, limpido. Di riflettere sull'arte come meccanismo di rappresentazione (e per i registi, di autorappresentazione) di dinamiche emozionali, di sentimenti in maniera al contempo artefatta e immediata, come se dovessimo scivolare su due superfici, una ruvida che ci dica che si tratta di un film, in cui c'è sempre qualcosa di più, e al contempo di una liscia, che ci permetta di identificarci e piangere su dolori nostri, che si producono in noi. Nanni ricerca esasperatamente, dolorosamente la generosità dei sentimenti filiali, quel senso di rispetto e di aggressività, quel venir meno della sicurezza più profonda e potente che si può esperire nell'unica vita che ci è data. Per questo alcune immagini potentissime, come il colloquio dimissionario di Giovanni:
"So che non è elegante ricordarglielo, ma alla sue età trovare un altro lavoro non è facile"
"Lo so, lo so"
Di fronte alla perdita di mia madre ("Mamma sta morendo") la sicurezza lavorativa ed economica non è nulla. Si è di nuovo i bambini irresponsabili e impermeabili alle logiche ordinarie della realtà, alle logiche della vita "seria" (e di un secolo che si ostina a rimanere "serio", come i film inattuali di Margherita); e in mezzo a questo destreggiarsi, dobbiamo prenderci tempo per curare i dolori di tutti. Della figlia, del fratello, del fidanzato, dell'ex-marito, dell'attore protagonista ormai completamente ammattito, intrappolato nel meccanismo illusionistico del mestiere del cinema.
E allora si comincia, con un movimento psicologico piuttosto acerbo, ma che personalmente mi tocca nel profondo, a vivere nel ricordo e nella immedesimazione la vita della propria madre. Si comincia a pensare a quanto siano stati eccezionali loro, a come accidenti abbiano fatto a coinvolgere così gli altri nelle loro cose assurde, di cui lo studio del latino diventa una sapida e ironica metafora. Moretti come al solito sa cogliere i migliori stereotipi del nostro paese e universalizzarli in una forma sempre più generosa - la nostra cultura, trattata con il dovuto rispetto. Pur nello studio cieco e matto, fuori tempo, inattuale, remoto, annichilito dalla stereotipia ("Non mi ricordo esattamente a cosa serva, ma serve!" dice Margherita alla splendida figlia), simbolizzato da quei bei libri anni Cinquanta, la biblioteca ordinatissima, i pochi concetti didattici incollatisi alla nostra persona fino a cogliervi una sorta di strana verità che si ripete come un nastro trasportatore, le milioni di versioni con cui abbiamo costruito un individuo, un modo di fare il proprio lavoro privo di retorica, privo del necessario teatrino, privo di criticismo, premiato da una vecchiaia in cui le poche cose che servono sono rimaste intatte e con l'aggiunta di un qualcosa che, tristemente, capisce solo l'anziano. "E' divertente che ti credano più stupido, e invece capisci di più". L'anziano assapora in modo autentico i concerti di musica classica lungamente amati, regalati peraltro da una nipote che sembra più intelligente e sensibile dei suoi adulti (la cura dei figli si manifesta invece nel regalo di cibi "più buoni di quelli dell'ospedale", altro cliché), assapora il legame col dizionario, il controllo sulla materia, il rispetto della propria "troupe" scolastica, cosa che invece Margherita non sembra in grado di fare, pur nell'immane sforzo di bontà che caratterizza il suo tentare di fare cinema civile nell'oggi (si pensi alla straordinaria scena della conferenza stampa, il pensiero extradiegetico sulla comprensione della realtà). Margherita definisce se stessa come "una ******* a cui permettete di fare tutto". Eppure la circonda un rispetto simile a quello che sopravvive alla morte di sua madre. Forse perché la mamma tramanda un sapere, "a domani", al domani, un sapere morto, e crocifisso quotidianamente dai professionisti del progresso, senza bene capire il perché in realtà, un sapere che a parere di tutti contrasta l'anima messianica della formazione scolastica, una formazione che dovrebbe proiettare tutti quanti nella creazione di un mondo le cui proprietà emergenti non contemplano lo spazio dell'io, e soprattutto quello altrui, che si manifesta solo ed esclusivamente nell'interesse. "Ti faceva sentire importante, perché per lei lo eri, importante". Questo sembra l'unico vero valore che traspare dal film. Che ciò che conta è interessarsi alla storia degli altri, persino quella inventata di una mai avvenuta collaborazione con un grande regista.