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LA SAMARITANA regia di Kim Ki-Duk

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K.S.T.D.E.D.     8 / 10  17/09/2007 13:29:17Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ancora Kim Ki-Duk e ancora silenzio e ancora dolore..


--------ATTENZIONE, COMMENTO AD ALTO TASSO DI SPOILER...---------------
Ormai Il regista coreano sa usare il silenzio come sa usare la telecamera, alla perfezione; gli dà il ruolo che meglio crede e glielo fa interpretare in modo magistrale. Se nelle precedenti pellicole il silenzio risulta un mezzo positivo e molto più efficace di inutili discorsi per far si che i personaggi riescano a comunicarsi le proprie emozioni, in questo caso, invece, resta un mezzo in grado di comunicare le emozioni dei personaggi solo a chi guarda risultando, così, un muro invalicabile di incomunicabilità che si frappone tra i protagonisti non permettendo loro di spiegarsi, portandoli, conseguentemente, alla deriva.

Il film si sceglie tre protagonisti e ne racconta i punti di vista, attraverso tre diversi capitoli che sfumano l'uno nell'altro.
"Vasumitra". Inizialmente è Jae-young a nascondere se stessa ed il bisogno esasperato di affetto, oltre che di un ruolo, dietro silenziosi e spesso fuori luogo sorrisi. Tanto esasperato da ricercarlo negli uomini e nei ragazzi che la pagano per far sesso con lei. Cerca di spiegare a se stessa e all'amica i suoi comportamenti, il suo cercare di instaurare rapporti umani con coloro che la usano, ma l'amica non glielo permette, anzi la blocca e la rimprovera quando lei cerca di farlo ("sono solo animali, non pensarci neanche"). Jae-young è così costretta a nascondersi sorridendo; si concede un pianto liberatorio solo appena prima di morire.
"Samaria". Poi è Yeo-Jin a nascondere se stessa da chi gli sta intorno (suo padre) e a cercare l'espiazione tramite il dolore, il dolore di chi continua a sorridere mentre si concede a uomini ai quali non vuol concedersi, restituendo loro i soldi con i quali gli stessi avevano in precedenza pagato Jae-Young. Espiazione, quindi dolore. Silenzio, incomunicabilità, quindi sofferenza. Il pianto liberatorio raggiunge infine anche la samaritana.
"Sonata". Infine è il padre di Yeo-Jin a scegliere nuovamente la strada del silenzio e del dolore; non affronta il problema, cerca di evitarlo, evitando la figlia ed evitando che i "clienti" incontrino la figlia. Che sia la strada più sbagliata è ovvio, che sia la meno razionale è ovvio, ma non è altrettanto ovvio che non sia quella più istintiva, anzi. Dopo aver pedinato, picchiato ed umiliato i clienti, arriva all'atto estremo, forse inevitabile per il cammino che Kim Ki-duk fa intraprendere ai suoi personaggi e torna così nuovamente e prepotentemente l'assunto "silenzio, incomunicabilità, dolore". Il pianto liberatorio al termine arriva anche per lui.

A padre e figlia però, al contrario di Jae-Young, viene concessa una via di fuga da questa sorta di vortice, alla quale il padre si aggrappa con tutte le forze, ma non prima di aver mostrato simbolicamente la strada alla figlia, che dovrà, da lì in avanti percorrere la sua strada, sola. La sequenza finale, di lei che impacciata e a fatica insegue la macchina che sta portando il padre in prigione senza alla fine raggiungerla è una delle più belle e più cariche emotivamente che il regista abbia mai offerto attraverso il suo cinema e di scene da antologia nel suo cinema ce ne sono parecchie.

Mi sembra leggermente superfluo parlare di aspetti tecnici quali regia e fotografia, dato che da questo punto di vista la ormai raggiunta maturità è fuori discussione.

..e ancora un piccolo capolavoro.


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