kafka62 6½ / 10 09/05/2018 14:47:02 » Rispondi L'uomo può modificare il proprio destino? E' sempre libero di scegliere oppure il suo futuro è completamente predeterminato? Abituato a ben altri paradossi (vedi i salti indietro nel tempo di "Terminator" e de "L'esercito delle 12 scimmie"), il cinema, arte paradossale per eccellenza, ha fin dai suoi inizi affrontato queste affascinanti tematiche, tanto in chiave di commedia ("Domani avvenne") quanto in forme ben più drammatiche (l'opera di Kieslowski in genere). Portando sullo schermo un bel racconto di Philip K. Dick, Spielberg aveva tra le mani un'ottima opportunità per aggiungere il suo nome a quanti prima di lui avevano autorevolmente discettato di pre-conoscenza del futuro e di libero arbitrio. In effetti, la storia di una società in cui alcuni veggenti sono in grado di prevedere gli omicidi, permettendo alle forze dell'ordine di arrestare i colpevoli prima che questi possano commettere il loro crimine, è straordinariamente ricca di suggestioni e di implicazioni di vario genere, non ultima quella di una critica sociale nei confronti di un sistema in grado di controllare orwellianamente le più segrete volontà e aspirazioni dell'individuo. Purtroppo Spielberg ha preferito, assai più convenzionalmente, realizzare un prodotto molto hollywoodiano, scegliendo una star come Tom Cruise e profondendo effetti speciali ed elementi spettacolari a piene mani. Col risultato, sovrabbondante e diseguale, di fare non un film, ma addirittura cinque film. C'è anzitutto, sia pure in secondo piano, il coté politico alla "Brazil", sottolineato da una America che deve scegliere per referendum (e quindi in maniera apparentemente democratica) se estendere il sistema della "polizia pre-crimine" a tutta la nazione (superando così la fase sperimentale) ma che, in grado di controllare pervasivamente e senza alcun rispetto per la privacy i suoi cittadini, assomiglia in maniera preoccupante a un tirannico "Grande Fratello". Di "Brazil" però "Minority report" non ha in comune né la critica corrosiva e sarcastica del potere né la forza surreale e fantastica, ma finisce invece per conservare solamente la parte scenografica, quel bric-a-brac futuribile in cui convivono elementi ultra-moderni (le automobili che sfrecciano verticalmente su avveniristiche autostrade, la "oro-camera" in grado di produrre immagini tridimensionali) con altri anacronistici (le bocce di legno contenenti le iscrizioni dei nomi delle vittime e dei colpevoli degli omicidi che scendono giù da un tubo di vetro come nell'estrazione dei numeri in una lotteria) o addirittura risibili (i "ragni" usati dalla polizia nelle ispezioni). Come film fantascientifico "Minority report" risulta perciò alquanto deludente, non avendo come la pellicola di Gilliam un intento dissacratore e sovente goliardico capace di far accettare come verosimile dal punto di vista narrativo il futuro rappresentato sullo schermo. Quando John Anderton, il capo della polizia pre-crimine, viene a sua volta inopinatamente accusato dai tre veggenti e deve sfuggire alla cattura, il film di Spielberg (è il terzo film, dopo quello socio-politico e quello fantascientifico) tocca il suo punto più basso. Siamo qui dalle parti di "Mission: Impossible" e di "Il fuggitivo", con Cruise che corre, si arrampica, vola, cade senza farsi un graffio, lotta e si nasconde, solo contro tutti. Le scene sono rocambolesche e le immagini frenetiche come in un film di John Woo (senza peraltro possederne l'estro visivo) e tutto sommato non si discostano troppo (ciò risultando alla lunga abbastanza limitante e fastidioso) dalla media dei tanti film di azione contemporanei. Dove invece "Minority report" si risolleva è nella parte per così dire "filosofica". John Anderton ha visto le immagini del suo omicidio, è al corrente del nome della persona che tra poche ore egli ucciderà, in poche parole conosce in dettaglio il proprio futuro: riuscirà a cambiarlo, ribellandosi a un destino che sembra già scritto nei minimi particolari?
Paradossalmente, proprio il suo desiderio di capire cosa si nasconde dietro l'assurda previsione che lo accusa (una macchinazione ordita ai suoi danni? un errore dei precog?) lo porta dapprima sul luogo del futuro delitto e poi a conoscere l'uomo che sei anni prima gli aveva rapito e ucciso il figlio. Improvvisamente Anderton comprende che quanto era stato predetto è incredibilmente plausibile: l'uomo retto e integerrimo che era sente, incontrollabile e violento, l'impulso di uccidere l'uomo che fino a pochi minuti prima gli era completamente sconosciuto, così come in "Seven" il giovane poliziotto sparava al serial killer quando scopriva che questi gli aveva assassinato la moglie. Ma altrettanto imperiosa è la spinta a violare e modificare il corso prestabilito e immutabile degli avvenimenti. In questa prometeica lotta tra dovere e potere l'ineluttabilità del destino provoca una vertigine del senso: come l'uomo della favola che incontra un giorno la propria morte, pensa che sia venuta a prenderlo e fugge terrorizzato in una città lontanissima solamente per scoprire che proprio in quel posto remoto aveva l'appuntamento fatidico, così Anderton realizza la sua sorte nefasta proprio cercando in tutti i modi di scongiurarla.
Spielberg però non sa portare fino in fondo queste affascinanti riflessioni e, fedele a un'idea di cinema impegnato sì ma solo fino a un certo punto, spreca il credito accumulato in un finale giallo ridondante e complicato, con un clamoroso colpo di scena
in cui il collega cattivo si rivela (troppo tardi) buono e quello buono cattivo (come in "L.A. Confidential"), ed in più un vecchio assassinio astutamente occultato che provvidenzialmente riappare per mettere le cose al posto giusto.
E' un vero peccato, ma – come si suol dire in questi casi – bisogna accontentarsi di quel che passa il convento, dal momento che con Spielberg, se da un lato è sempre assicurato uno spettacolo emozionante e di fattura tecnica sopraffina, dall'altro non mancano mai retorica, demagogia e, soprattutto, happy end ottusamente consolatori.