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IL VENTRE DELL'ARCHITETTO regia di Peter Greenaway

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Woodman     9 / 10  02/09/2013 00:24:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Sarei un bugiardo se dicessi che il cinema di Greenaway mi convince.
Tuttavia è innegabile che mi affascini moltissimo.

Rigidi schemi compositivi tolgono anima ad una storia di follia e solitudine estrema, che fa capo ad un personaggio memorabile come Kracklite (Dennehy, strepitoso ma mal servito da un doppiaggio non all'altezza).
Lo sfarzo visivo è da ricercare stavolta nei contrasti cromatici portati al verde scuro, al grigio e al rossastro, nella maestria delle panoramiche, nella plasticità conferita al tuttotondo di creature e creazioni. Il dandyssimo e maniacale autore più che mai riesce a coniugare il suo sconcertante pessimismo con una forte e perfetta cura visiva, fotogramma dopo fotogramma.
E il film stesso risulta forte. Probabilmente è un capolavoro, ma come biasimare coloro che vedono in Greenaway una bufala, una carica infinita di presunzione e superficialità?
A me piace pensare a quest'ennesimo, anomalo, intelligente autore britannico come ad una personalità rivoluzionaria, piena di magia, di inventiva e di fremiti. C'è così tanto furore da sviscerare, così tanto erotismo da fondere alla tristezza, così tanti colori da glorificare, così tanta arte da descrivere.
E allora che si parli di pittura, che si mostri la pittura, che si reinventi la pittura.
E "Il ventre dell'architetto" più che mai furibondo furoreggia una barocchissima esplosione di intenti figurativi, sublimati sino alle estreme conseguenze (lo sconcerto, l'irritazione, il cerebralismo aiutato anche dai dialoghi ambigui e metaforici). Una valanga di perfezionismi geometrici, di simmetrie narrative, di tableau vivants in movimento, di dialoghi ermetici come i personaggi che li esibiscono.
Un film tragico, disperato e agghiacciante, che ha scacciato via ogni mia diffidenza non appena sopraggiunta la scena dell'arancia. Quella è poesia e basta. Quella è maestria. Associazioni mentali varie condiscono a sufficienza il brivido che provo in quel punto. Greenaway e il suo cinema. Greenaway e la sua follia controversa.
Indubbiamente estetizzante, ma quanti altri artisti come lui hanno saputo raccontare al tempo stesso? E al tempo stesso scavare nei personaggi? E affascinare attraverso unioni di caratteri, attraverso tecnica e contenuto magistralmente fusi come in un bacio proibito? E, aggiungerei, senza mai smentirsi, senza mai perdere d'occhio loro stessi, senza mai sacrificarsi o tradirsi? Io penso solo Kubrick. Che era un altro pianeta, quindi lasciamo stare.
Greenaway ha fatto di questa impossibile, ossessiva e incredibile reincarnazione di tele, tavole, pigmenti e incisioni il suo codice linguistico.
Prendere o lasciare, quindi. Perchè questo dannato sperimentatore presuntuoso, colto e apocalittico, musicofilo, voyeur, perverso dettatore di copioni in forma di rebus, crede in ciò che fa. Ha le idee chiare. Non è sprovveduto, non è stolto, non è accademico. Perchè capace anche di commuovere, pietrificare, innescare imput di riflessioni amare. E' capace di far pensare a lungo, di infettare lo spettatore delle sue stesse ossessioni, attraverso i superlativi temi musicali di Nyman o Mertens.
Quindi ci penserei dieci volte, e solo dopo averlo studiato, averlo ascoltato e aver visto tutta la sua opera, prima di definirlo superficiale.

In sintesi credo che, nonostante un formalismo stavolta non sempre adatto o digeribile e che tradisce la materia truce della vicenda, "Il ventre dell'architetto" sia un film grande, che attraverso visioni gigantesche parla di cose gigantesche. Sin dagli sconsolati titoli iniziali lo si evince. Se ne ha conferma sino alla scena clou della depressiva concessione alla sorella di Speckler e al finale che esplode di simbolismi e allegorie, in un delirio definitivo e incommensurabile, spettacolare e sconfinato come l'infinito pittorico. Anche se ad essere sincero mi sarei aspettato di trovare Louisa e Kracklite lontani, alternando le loro conclusioni con panorami e piani sequenza molto più vasti, con più onirismo.
Ma la ciliegina finale è splendida: In un fotogramma si riassume la potenza visiva e il male del destino, chiavi di lettura dell'intero film.
Menzione anche per la strabiliante scena dell'irruzione al ristorante, in cui si fa fortissima la compassione per il povero e infausto architetto. Dipinto sempre più come un mostro, immerso in una disarmante alienazione, sempre più tangibile, sempre più ancestrale, vicina, soffocante.
E vogliamo parlare della potenza allucinante che genera il simbolico ventre? Tetro, vitale, mortifero, splendido e doloroso al tempo stesso. Vita e morte, insieme. Arte e decadenza, incomunicabilità e solitudine, ossessione e rassegnazione.
Tutto converge in un'analisi costruita e motivata, riempita di amore e dolore.
Un lungo finale, un epilogo selvaggio, lanciato sulle note di Wim Mertens, che con "Struggle for pleasure" realizza uno dei componimenti cinematografici più stupefacenti e mirabolanti di sempre.
Pazzesco, folle, corrosivo.
La marcia funebre più pittoresca e lucida della storia del cinema.
Avanguardia pura. E' proprio il caso di dirlo.

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