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47 RONIN regia di Carl Rinsch

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sev7en     5 / 10  28/03/2014 17:16:35Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
47 Samurai, “sconsacrati” dopo la morte del loro maestro, decidono di vendicarsi per onorare daimyō e casato con l’aiuto del meticcio Kai, un mezzosangue allevato da creature soprannaturali ma con il cuore devoto a Mika, la figlia del defunto maestro.
La leggenda dei 47 Rōnin è un emblema della filosofia e della cultura giapponese: un mix unico, raro, di valori come lealtà, onore, fedeltà, senso del dovere e devozione fino alla morte, perché ogni cosa diventa effimera dinanzi al proprio maestro. Regista e sceneggiatori, Carl Rinsch e Chris Morgan / Hossein Amini, propongono un remake di una pellicola storica, “I 47 Ronin”, aggiungendo quei fattori hollywoodiani da classica americanata che depauperano l’opera prima di Kenji Mizoguchi (1941) di ogni vocazione didascalica.
Il lungometraggio, anzi, se direttamente confrontato con l’illustre predecessore, è un vero e proprio oltraggio perché l’interpretazione della leggenda è più attinente ai classici cliché moderni, con la figura dell’eroe solo ed incompreso, emarginato, unica chiave di lettura della storia (Neo… alla Matrix), eternamente promesso alla figlia/principessa rapita, che non alla coralità dei Samurai reietti, costretti nonostante l’immensa fede ed ardore, a lasciar spazio all’americano di turno. Rinsch mette subito in chiaro chi siano i buoni e chi i cattivi al fine di creare quell’alchimia magica che porta l’empatia alle stelle tra spettatore e Samurai, ma il tentativo è solo azzardato perché i momenti di pathos non portano mai alla lacrima neanche negli istanti più solenni complice un Renu Reeves che, cercando di farsi spazio tra i veri eroi, appare troppo supino e inerme, uno schiavo che non diventa gladiatore, né aspira a farlo nonostante in ballo ci sia la sua amata, il suo regno e… il suo onore. La storia prosegue linearmente senza colpi di scena se non nel finale alternando momenti di estremo fasto, come nella descrizione del ridente casato con colori sgargianti e decisamente poco affini al mondo giapponese, a tratti di buio e tenebre nelle quali le arti dei samurai hanno la meglio su un esercito di 1000 uomini. Ad onore ed ambizione si aggiungono ingredienti quali l’amore, per due anime così diverse eppur affini, Kai e Mika, la magia declinata solo sotto l’accezione della stregoneria perché non c’è una controparte che la contrasti (“Neo” a parte…), un “razzismo” ariano per il meticcio Kai, confinato a vivere ai margini, come un rinnegato, nonostante siano stati essi stessi a soccorrerlo e riportarlo in vita.
I dialoghi sono numerosi, mai verbosi ma purtroppo scontati: sarà che il vocabolario alla fine ha un numero limitato di termini, ma tra frasi di circostanza, battutine tirate lì come un sasso nello stagno, e le fusa alimentate dai dubbi amletici di appartenere a caste diverse, alla fine ci si stufa presto e si spera che un embolo arrivi a sbloccare quel nervo che serra la spada nella fodera.
Effetti speciali e musica, invece, sono davvero ben fatte: per il digitale si è evitato di calcare la mano e si nota perlopiù negli interventi della strega perché nelle battaglie l’effetto è decisamente realistico mentre l’accompagnamento sonoro è rimarchevole, in grado di sottolineare ed adattarsi dinamicamente ai vari momento del film.
Probabilmente se non ci fosse stato il suo illustre predecessore a tratteggiarne i lineamenti e se nelle sue dichiarazioni il regista stesso non avesse dichiaro tale ispirazione, il film sarebbe stato valutato sotto differenti colori, ma allo stato attuale è purtroppo un classico blockbuster, tra l’altro in picchiata ai botteghini, per famiglia, con un PEGI qualche gradino sopra la norma ma comunque del tutto analcolico.