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UNDER THE SKIN (2013) regia di Jonathan Glazer

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Woodman     6 / 10  06/09/2014 13:11:03Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Chi, giustamente, a Venezia 70 alzò la mano e nominò Roeg, aveva individuato una delle (poche) chiavi di lettura per quest'opera. Non mi è difficile credere che, a chi fosse a digiuno di Russell, Temple, Jarman, Greenaway, Bartas, Carax, Karen Arthur e in minor misura anche del primo Makajevev e delle lezioni figurative di Jodorowski, il film sia sembrato fuffa.

"Under the skin", tuttavia, è una sorta di farmacia su pellicola (pardon, digitale).
Assistere a quest'opera equivale a farsi prescrivere le medicine o gli sciroppi.
E' uno dei tanti, colossali errori commessi dai cineasti odierni. Quello di inscatolare l'essenza del film come fosse tonno.
Di comandarti a bacchetta, costringerti davanti al binomio bianco-nero, prendere o lasciare.
L'imperativo emozionale che è regola imprescindibile dei blockbuster.

Già, perchè "Under the skin" è tutto fuorchè Cinema avanguardistico, sperimentale, d'essai, e tantomeno weird.
E' Cinema di preconfezione, che anzichè aggiornare (come si cerca di far credere) l'immagine e la figura, porta avanti, mascherandola con decoro impeccabile, la patina idiota e pruriginosa degli anni '80.
Dunque, indirettamente (ma presumo del resto volontariamente) il raggio d'utenza è allargato a dismisura.
Potrebbe essere interessante vedere come persistono certe tracce del glamour di "The man who fell the earth", ma il film Roeghiano più affine all'opus terzo di Glazer è in realtà quello stralunatissimo ed estroso "Eureka", film fatto di atmosfere fantasy e inquietudini esopiche, costrutti evanescenti che sopprimevano la logica della consequezialità.
Un Cinema eccentrico e fiabesco, cui il film di Glazer si avvicina, e molto più che al detestabile Kubrick, l'opera è debitrice delle follie visive dei suoi antecedenti connazionali.
E' quindi innegabile che sia l'estetica a predominare, visti i presupposti, considerando che siamo capitati nei turchesi anfratti del Cinema d'arcobaleno e pittura inglese '70-'80, dove i riferimenti alle arti figurative strabordavano e plasmavano l'essenza delle opere.
Ma se a suo tempo Roeg vestiva un ruolo nobile in quanto sperimentatore a tutto tondo, Glazer risulta oggi molto più formalista e innocuo, se il primo dai simbolisti e secessionisti aveva trasfigurato e ripreso la veste iconica della figura femminile (e santificato la divina consorte Russell) -la tanto rigida ed essenziale quanto preziosista e simbolica architettura letteralmente riversata nella regia- Glazer ricicla i lati meno intriganti del periodo, e, se Nicolas sbracava sul piano della narrazione in preda al delirio crittografico, Jonathan si perde molto prima, affezionandosi morbosamente al decorativismo, trasformando il romanzo di Faber in un'estetizzante pioggia di pelle e liberty, dove i codici sono fasulli e le soluzioni visive accreditate.
Forse, insieme agli archi di Mica Levi, è proprio questo narcisismo cieco e irrefrenabile che ha fatto pensare a quel beone di Kubrick. Uno che andava alla cieca, in un microcosmo dove vigeva lo stanleycentrismo. Poi avrà anche fatto scuola, ma questa è un'altra storia.
E infatti "Under the skin", sotto un'ulteriore luce, è pure manierato, poco meditato, semplicistico, quindi pomposo e arioso.
Si muove ondivago fra il pessimo e il bellissimo, all'insegna del compiacimento visivo.

Ma riesce anche a presentare un passaggio di una potenza oggi rara, elidendo tanto miracolosamente quanto brevemente la gratuità: si tratta del tremendo segmento sulla spiaggia, la cui tragedia è aperta e palpabile, la cui crudeltà vibra sottotraccia nel tentativo da parte di chi assiste di frenare lo shock. Un momento di epocale smarrimento, un buco nero paralizzante in cui si contrappone la furia astratta del pianto alla mutezza della morte apnoica. Paura esponenziale, infinita, primordiale, illogica. Furibonda cecità. Insostenibile, quasi stupefacente.
Vi sono echi suggestivi nei frammenti in cui il regista si abbandona di più, ma il sapore artificioso si insinua di continuo, suscitando più d'un sospetto.

Dopo "Birth", apprezzato da me e altri 4 in tutto il globo, era d'obbligo il grande salto, ma l'ermetismo del film anzidetto era ivi meno fasullo che nell'opera in questione, forte di un fascino acquisito posteriormente grazie al forte divario fra i critici e fra il pubblico, ambedue letteralmente spaccati a metà.
Il riciclo non riguarda solo le debolezze altrui, ma anche le proprie: ciò che traballava (vistosamente, dato che di immagine prima di tutto si tratta e disquisisce) in "Birth", qui è esaltato, soltanto coperto da un carnevalesco mascheramento.

Cinema di immagine pura e sensazionalistica che si impicca da solo antetempo e si trascina moribondo stringendo a più riprese la corda. Ma senza morire.

Alla fine della fiera, rimane da fare un doveroso rimprovero a Glazer. Ancora deve imparare una cosa fondamentale se davvero è intenzionato a non accontentarsi e a fare del grande Cinema:
Le sensazioni non si impacchettano.
E' impossibile. E tentar nuoce.