caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

IL SILENZIO regia di Ingmar Bergman

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
kafka62     7 / 10  06/04/2018 15:16:51Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
La parola "ANIMA", che l'agonizzante Ester imperscrutabilmente scrive nella lettera che il piccolo Johan legge nell'ultima sequenza de "Il silenzio", è l'estremo e disperato messaggio nella bottiglia che una umanità naufragata in un oceano di silenzio, solitudine e vuoto morale lancia nel precario ed incerto avvenire. Essa è anche l'unico, fugace accenno a una dimensione spirituale e trascendente dell'esistenza, che nel resto del film è completamente assente, sommersa da una immanenza degradata ed abietta, che svilisce gli esseri umani sotto il peso intollerabile dell'assenza di Dio. In effetti, "Il silenzio" fa subito terra bruciata attorno ai suoi personaggi: li circonda di incomunicabilità, li rinchiude in ambienti claustrofobici (uno scompartimento ferroviario e una stanza d'albergo), li isola in un misterioso paese straniero dal linguaggio indecifrabile e li annichilisce con enigmatici segni di una catastrofe imminente (i carri armati che scorrono davanti agli occhi di Johan, il rumore degli aerei che sorvolano la città). Anche il loro privato è permeato di una analoga ambiguità: essi non hanno quasi un passato (non si sa ad esempio da dove provengano né dove vadano, mentre nel corso del film emergono soltanto vecchi risentimenti sepolti o ricordi da tempo rimossi perché troppo orribili da sopportare); il loro presente (e la loro funzione narrativa) è ridotto a un attonito guardare in faccia la morte o a un fatuo deambulare in una vita senza più alcun ideale; il loro futuro è fatto solo di dolorosi rimorsi e di logore abitudini, utili a malapena per sopravvivere.
Raramente Bergman è stato così pessimista come ne "Il silenzio": qui egli descrive impietosamente, senza indietreggiare di fronte a nulla, tanto le miserie della carne (gli amplessi umilianti di Anna, la straziante malattia di Ester) quanto il venir meno delle certezze morali ed esistenziali (tutto il film è ambiguamente percorso da simboli inquietanti, dai nani dell'albergo ai misteriosi titoli dei giornali). Ma il culmine di questo nichilismo è raggiunto nelle scene di cannibalismo tra le due sorelle (la frigida, razionale e moralista Ester e la sensuale, istintiva e superficiale Anna), le quali si rovesciano addosso, in un crescendo di reciproco e inconciliabile disprezzo, un passato di maldigerite incompatibilità. La scena in cui Anna descrive alla sorella lo squallido incontro sessuale con l'uomo conosciuto al bar o quella in cui si fa scoprire con lo stesso uomo in atteggiamento inequivocabile, sono di una crudeltà psicologica inaudita. Questo oscillare tra una algida e garbata convivenza (che di norma rappresenta il fragile equilibrio di partenza della storia) e l'improvvisa esplosione di rancori gettati in faccia senza più alcun pudore è del resto la caratteristica più riconoscibile di quasi tutti i film di Bergman dagli anni '60 in poi. Quello del regista svedese è infatti un cinema che fa letteralmente a pezzi sentimenti come l'amore di coppia, l'amore tra genitori e figli, la solidarietà o la fratellanza, salvo poi cercare di recuperare a fatica tra le macerie il loro senso autentico, non convenzionale né contaminato da religione e morale corrente.
Questo intento, che per fortuna ne "Il silenzio" (diversamente da "Come in uno specchio") non raggiunge mai toni didascalici, rappresenta un'esplicita, non eludibile, chiave di lettura del film, ma, un po' paradossalmente, ne costituisce anche il maggior limite, come vedremo fra poco. La forza del film sta soprattutto nel suo geniale ermetismo, nella sua criptica ambiguità, nel suo resistere alla penetrazione del senso. Tutto questo fa il pari con uno stile audacemente innovativo: la fotografia chiaroscurata illumina espressionisticamente i volti dei personaggi, esaltandone la drammaticità delle espressioni (come dimenticare il viso di Ingrid Tulin prima dell'ultima crisi di asfissia, illuminato solo parzialmente da una luce che svela impietosamente l'orrore della malattia?); la macchina da presa pressa da vicino persone e cose, rinchiudendole in prospettive opprimenti e tafofobiche; lo sguardo del regista tira fuori dagli aspetti più comuni della realtà valenze inesplicabilmente inquietanti (quei dedalici corridoi d'albergo, che stanno tra "L'anno scorso a Marienbad" e "Shining"); le inquadrature non sono mai piatte, ma – tramite la profondità di campo e l'accostamento di due personaggi, l'uno ripreso di faccia, l'altro di profilo – si caratterizzano sovente per la sovrapposizione di piani diversi.
Purtroppo, l'allegorica ed espressionistica messa in scena de "Il silenzio", così pregna di novità tematiche e formali, così capace di fare a meno del "parlato", non riesce ad evitare uno scioglimento narrativo di stampo teatrale. Il crudele faccia a faccia tra le sorelle infrange infatti l'alone di indeterminatezza semantica che si era creato, fa intravedere la necessità diegetica di un prima e di un dopo, riduce gli illimitati spazi di senso fatti balenare all'inizio del film e immiserisce l'ambigua ricchezza interiore dei personaggi, i quali, da figure astratte suscettibili di essere interpretate all'infinito, vengono ricondotti al livello molto più banale e prosaico di un conflitto di supremazia sororale. "Il silenzio" soffre così di uno squilibrio tra una introduzione che fa affiorare con abilità incubi e paure universali e uno sviluppo che ci riporta bruscamente a un privato conflittuale su cui pesa la pesante ipoteca del dejà vu. In parole povere, Bergman non è capace di affrancarsi del tutto dallo psicologismo, in un film che invece, grazie ad allusioni, simbolismi e metafore, dimostra di saper fare benissimo a meno di esso. Insomma, Bergman cerca di passare con disinvoltura da Kafka a Strindberg, ma il passo dall'uno all'altro è molto lungo, e in una sola ora e mezza non è consentito neanche a un genio come lui di farlo impunemente.