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IL GABBIANO regia di Marco Bellocchio

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Invia una mail all'autore del commento Elly=)     7½ / 10  01/04/2012 01:41:27Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il GABBIANO appartiene al periodo in cui Bellocchio decise di esprimersi con il teatro nel cinema, girando anche un altro film: TIMONE D'ATENE.
Il film è più che altro un esperimento per far sì che fra cinema e teatro ci sia uno scambio reciproco per quanto riguarda gli schemi narrativi dove troviamo un testo abbastanza difficile e i codici di linguaggio, come se fossero opere teatrali filmate, o meglio ancora è come se fosse un modo di riscrivere, è una scusante per rispecchiare le condizioni dell'autore stesso, per sottolineare il valore della dimensione artistica, un autoriflessione sulla letteratura come mestiere e creazione, condito di problematiche incentrate sulla vita e sull'identità.

La pellicola si apre con un PP sull'oggetto che rappresenta il dramma del film, l'interiorità, la solitudine, la regressione, per poi spostarsi sui personaggi e la loro ricerca e osserviamo il mondo intorno a loro: contadini che guardano lo spettacolo in modo passivo, l'amore frivolo, in continuo pericolo di instabilità, tutto condito con una citazione ad Amleto.

Il GABBIANO è una tragedia che ci mostra come il nuovo venga violentato dal vecchio, come i giovani vengano portati al suicidio per colpa degli adulti, come la nuova arte venga soppressa da quella vecchia. Una scena che forse incarna questo senso di morte è la scena in cui Costantin prende il gabbiano e lo uccide perché viene tradito e Trigorin successivamente farà lo stesso con Nina. Sfogo di questa immagine allegorica è il finale. Nina appare come se fosse un sogno, nell'oscurità, nel temporale mentre i contadini cantano canzoni tipiche venete nelle barche sul fiume rifacendosi al simbolismo, mettendo in evidenza la vita come oggetto irraggiungibile esponendo il mito dell'andare, del vivere veramente. In effetti se analizziamo in modo profondo i personaggi ci accorgiamo che sono anime rinchiuse in questa villa con bellissime scenografie che riportano in vita i palazzi ottocenteschi e le vetrate liberty, per non parlare dei padiglioni sulla riva del fiume. Personaggi che si illudono, sognando e desiderando cose che non riusciranno mai a realizzare, molto probabilmente perché sono contagiati da quella che per loro singolarmente è l'arte, l'essere artista e per cercar di materializzare i loro sogni sono pronti a tutto, ma delirano cadendo nelle braccia della morte. Queste mura (le mura chiuse, piene di significato per il regista veneto) sono in contrapposizione con l'esterno, la vita, il movimento, rappresentati per l'appunto dalla città.

Come il protagonista anche il dottor Dorn è vittima di questo sogno dell'essere artista completo. Sorin contrariamente agli altri è l'unico che rinuncerà a tutti i desideri per ottenere il potere. Bellocchio usa la figura del suo "amato servo" come occasione per portare sullo schermo un servo diverso da quello descritto da Cechov, lo innalza, non lo schiaccia. Nell'ultimissimo PP del servo vediamo che il soggetto saluta la "famiglia" di cui non ha mai fatto veramente parte e con una frase disprezzante dice "Scusate se vi ho disturbato". E dopo questo intervento finisce pure lui nel mucchio diventando un personaggio irritante e pericoloso. Il film termina con un'ultima inquadratura che riprende delle marionette abbandonate, evidente citazione al teatro e alla morte.

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