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MAGNIFICA PRESENZA regia di Ferzan Ozpetek

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Invia una mail all'autore del commento LukeMC67     6½ / 10  17/03/2012 03:31:47Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Devo ammettere che quest'ultima fatica di Ozpetek mi ha spiazzato come pochi altri film, ci ho messo moltissimo a metabolizzarla e a cercare di gettarci una qualche luce per parlarne.

Dunque, prendete "The Others" e "Otto donne e un Mistero"; private il primo di ogni componente horror e il secondo di ogni gioco ironico; avvolgete quel che ne rimane con un pesantissimo velo di disincanto e di melanconia; spruzzate con un po' di nostalgia e di acuta acidità qua e là e otterrete questo "Magnifica presenza", il film in assoluto più cupo girato dal noto regista italo-turco.

Una black comedy in cui tutto è costruito per essere (volutamente?) irrisolto, in linea con il pessimismo senza scampo in cui da diverse pellicole in qua sembra essere piombato Ozpetek. Per carità, che in giro ci siano pochi motivi per essere ottimisti è innegabile. Ma il "mal di vivere" del buon Ferzan va oltre il momento contingente e investe le corde più profonde del suo essere, in particolare del suo essere artista. Il film, infatti, può essere letto anche come una lunga confessione di impotenza nei confronti dell'arte, incapace di cambiare di un solo millimetro la realtà.

E' utile a tal proposito confrontare questo film coi precedenti di Ozpetek: se "Magnifica presenza" può ricordare superficialmente "La finestra di fronte" o "Un giorno perfetto", in realtà se ne discosta per almeno due motivi: rispetto al primo manca del tutto un personaggio in crescita che si contrappone a un personaggio sconfitto; rispetto al secondo, poi, manca il senso di "liberatoria catastrofe" che il suicidio del protagonista dava alla storia. Le eroine di Ozpetek erano note per i loro strepitosi percorsi di consapevolezza che le portavano a cambiare radicalmente vita verso un'autenticità dolorosa ma auspicabile, quindi verso una serenità matura che avrebbe potuto dare luogo persino a momenti felici. In questo film il protagonista è maschio e perfettamente antieroe: infantile (dorme con una "semi-cugina" che gli fa da mamma), solo, maniaco-compulsivo (la sua forma di comunicazione più frequente è tempestare gli altri come un bambino in perenne debito di aiuto e di affetto), sognatore (scambia per storia d'amore un semi-incontro occasionale di sesso ricevendo un brutale rifiuto in cambio), non solo non imparerà nulla dalla strana vicenda che si troverà a vivere, non solo non cambierà nulla nel corso della sua grama esistenza, ma addirittura finirà con l'aiutare i (suoi?) fantasmi a prendere consapevolezza della loro esistenza che fu. Nella rappresentazione che Ozpetek ci offre, infatti, i più realistici risultano essere proprio i fantasmi, mentre la vita reale sembra una specie di assurdo incubo dal quale rifuggire. Le protagoniste donne, invece, sono scaltre, anch'esse irrisolte (se non proprio fallite!) e conservano al massimo quell'istinto materno che le porta a soccorrere il maschio debole di turno. Ma in un quadro di solipsistico egoismo.

Le chiavi di lettura di questo stranissimo film stanno secondo me in due personaggi che compaiono a mo' di... mine vaganti nella storia: la transessuale ferita e l'anziana attrice sopravvissuta alla propria ex-compagnia teatrale (una immensa Anna Proclemer qui in uno dei ruoli più odiosi che le siano stati affidati). Quest'ultima rappresenta la cattiveria dell'egoismo e della scaltrezza che non fa sconti a nessuno e che, anzi, pretende di non essere giudicata. E' lei, in fondo, il personaggio vincente della storia contro il quale si contrappone il patetico "frocetto saputello" che nulla sa della vita, a parte il suo sentimentalismo debordante. La transessuale è invece l'irruzione della realtà "vera" nella vita dell'uomo-bambino: ben presto sarà risucchiata anch'essa dai fantasmi del protagonista cui crede non perché li veda realmente, ma per gustarsi la "gentilezza di uno sconosciuto" rifuggendo così dalla durezza della propria esistenza di emarginata condannata a restare tale fino alla morte. Anche lei ha bisogno di sognare per non sentire il dolore delle ferite (corporali e non) che le vengono inferte. Ma nulla sembra incidere l'ineluttabile, tenero straniamento che invade il protagonista, curioso e speranzoso di trarre qualche vantaggio dalla straordinaria vicenda che sta vivendo senza però riuscirci; a poco serve la speranza che almeno riesca a corrispondere l'attrazione verso il bel ciclista incontrato per caso che poi lo soccorrerà: Pietro ha troppo da fare con i fantasmi per occuparsi di lui (è pure una persona rassegnata al suo destino: "non riesce neanche a essere gay, figurarsi a fare l'etero", dirà alla "cugina")!

Col consueto stile leggero e melò, contrappuntato dagli altrettanto consueti dialoghi ficcanti, da una strepitosa colonna sonora (da sempre marchi inconfondibili dei suoi film), da un montaggio straordinario (godetevi i suggestivi titoli di testa, al proposito!) e dall'accuratezza della direzione degli attori, Ozpetek ci spiazza raccontandoci della solitudine, del non saper crescere, della cattiveria e delle meschinità umane più profonde, dell'"inutile utilità" di sognare di fronte alle recite, anche quando esse non ci consolano e non sono edificanti.
Per sopravvivere devi essere scaltro fino alla fine, senza limiti morali. Il resto è inutile finzione. Poveri noi, chi si salva?