LukeMC67 9 / 10 14/03/2012 07:56:00 » Rispondi A riprova che la realtà anagrafica nulla ha a che vedere con l'età interiore, i f.lli Taviani portano aria fresca al cinema confezionando un'opera potentissima utilizzando pochissimi mezzi, scenografie scarne, tantissimo mestiere, ma, soprattutto, tantissima anima. Ciò che sconvolge davvero in questo film è l'universalità del suo messaggio: un amico che era con me in sala, sconvolto, m'ha detto: "Ma quella prigione è il nostro mondo!". Appunto. La giustapposizione tra la realtà di questi carcerati che mettono in scena fino all'immedesimazione il "Giulio Cesare" di Shakespeare e la metaforizzazione della stessa nella nostra condizione di combattenti per una (illusoria) libertà dalle piccole e grandi tirannidi che ci distruggono la vita, funziona tremendamente bene e arriva dritta al cuore. Lasciandoci un amaro retrogusto in bocca: se l'arte è forse l'unico possibile atto umano liberatorio, è anche quello che ci introduce la consapevolezza del vivere e dunque una sofferenza esistenziale continua. Emblematica (e terribile) la frase finale del detenuto che rientra nella sua cella: "Da quando ho conosciuto l'arte, questo carcere è diventata una prigione".
Recitato splendidamente, con una fotografia espressionistica di rara suggestione ed efficacia (meraviglioso l'uso del bianco e nero per fotografare la realtà e del colore saturo per i momenti di rappresentazione teatrale o di quelli onirici), scenografie carcerarie brutali nel loro essere scarne, nude e crude, con un commento musicale lacerante, Shakespeare ne esce ancor più esaltato nella sua universalità e noi tempestati da irrisolvibili domande esistenziali. Senza contare l'ulteriore riflessione sull'istituzione-carcere che la nostra Costituzione vorrebbe rieducativa e riabilitante e che invece è degenerata in un moderno lager in cui finire di distruggere vite già segnate da percorsi sbagliati. Alla faccia della tanto sbandierata "centralità della persona umana" della cattolicissima Italia.