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J. EDGAR regia di Clint Eastwood

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kafka62     6½ / 10  28/02/2018 09:41:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Qualche critico ha parlato di "J. Edgar" come del "Quarto potere" di Clint Eastwood, anche se le ambizioni del film dell'ottuagenario regista californiano sono di gran lunga inferiori a quelle del capolavoro di Orson Welles. "J. Edgar" è un biopic abbastanza classico su colui che è stato il capo carismatico dell'FBI per ben 48 anni, una delle personalità chiave della storia americana del XX secolo, ma le perverse dinamiche del potere, le intercettazioni, i ricatti, i fantomatici e segretissimi dossier di cui si sussurrava che era in possesso e che condizionarono perfino le attività di presidenti e ministri, rimangono tutto sommato sullo sfondo, per privilegiare invece un'analisi più intima dell'uomo. Il film tratteggia Hoover come un ambizioso megalomane, un uomo che sicuramente credeva nel sogno americano ma la cui lotta contro radicali e comunisti prima, e gangster dopo, è apparsa soprattutto un pretesto per accumulare sempre più potere nelle sue mani e in quelle della struttura investigativa che egli vedeva come una diretta emanazione di sé e dei suoi più stretti collaboratori, dai quali pretendeva una dedizione e una vocazione quasi monacale. Sulla sua presenta omosessualità, Eastwood (e il suo giovane sceneggiatore Dustin Lance Black) non lascia dubbi: Hoover avrebbe avuto nella vita solo due grandi attaccamenti, la madre e il vice Tolson, i quali furono anche fonte di veti e tabù che condizionarono paradossalmente, lui essendo la persona più influente d'America, la sua vita privata (la madre non permettendo che la sua omosessualità venisse espressa più liberamente, Tolson che il suo capo contraesse un rispettabile matrimonio borghese con un'attrice di Hollywood). Particolarmente suggestiva è la scena in cui Hoover, sconvolto dalla morte dell'adorata madre, ne indossa i vestiti quasi fosse il Norman Bates di "Psyco".
Eastwood fa una sorta di compendio della storia americana più recente (il rapimento del figlio di Lindbergh, l'uccisione di Dillinger, l'assassinio di Kennedy, il premio Nobel assegnato a Martin Luther King, ecc.), ma il tono si mantiene tutto sommato abbastanza grigio ed incolore, un po' come la personalità dell'uomo che, nonostante amasse la celebrità e la partecipazione a party e corse di cavalli (in fondo "fama e segretezza sono i due estremi della stessa fascinazione", scriveva Don De Lillo in "Underworld"), non mirava tanto ad apparire quanto a controllare e manovrare dietro le quinte. L'unico colpo di scena Eastwood lo riserva nel secondo tempo, allorquando Tolson fa capire che molto di quanto Hoover ha raccontato al giornalista incaricato di scrivere la sua biografia e che lo spettatore ha visto come flash back apparentemente autentico, in realtà è stato gonfiato e artefatto a scopi agiografici. Il finale, con un Di Caprio splendidamente trasformato dal trucco in un credibile settantenne, salta del tutto gli anni quaranta e cinquanta (quelli che hanno permesso a Hoover di essere l'uomo più potente e temuto d'America), e si concentra sul declino e la morte del protagonista, con un leggero cedimento nel convenzionale e nel patetico, macchiando lievemente un film che comunque sa mantenersi nella media della ragguardevole produzione del prolifico regista.