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SCENE DA UN MATRIMONIO regia di Ingmar Bergman

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kafka62     7 / 10  08/03/2018 19:47:44Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Quello della coppia è sempre stato un tema caro a Ingmar Bergman, presente, ora in forma di commedia brillante ("Una lezione d'amore", "Sorrisi di una notte d'estate") ora in forma di cupo dramma esistenziale ("La vergogna", "Passione"), in gran parte della sua cinematografia. E' solo con "Scene da un matrimonio", però, che il regista svedese affronta questo argomento isolandolo completamente (almeno nelle premesse) dalle altre problematiche filosofiche, sociologiche e religiose (l'esistenza di Dio, i condizionamenti della società, ecc.). Nel film, infatti, lo sfondo (dalle scenografie all'ambiente cittadino) è il più possibile neutro e insignificante, mentre i personaggi secondari non entrano quasi mai fisicamente in scena (dei bambini si odono solo le voci al di là della porta della stanza da letto, l'amico di famiglia e l'amante di Marianne sono fuggevoli ombre all'altro capo del telefono). I due protagonisti vengono in tal modo staccati dal contesto sociale e parentale (che esiste, naturalmente, ma rimane fuori campo) e proposti al pubblico in una solitudine praticamente perfetta, che li rende entrambi delle figure quasi astratte, dei modelli archetipici della condizione della famiglia moderna. Dati questi presupposti, Bergman è in grado di operare uno studio in profondità, una mise en abyme della crisi irreversibile della coppia e dell'istituzione che da sempre la rappresenta, il matrimonio. Bergman sceglie per far questo la via più difficile, partendo da una situazione apparentemente idilliaca (Johan e Marianne sono felicemente sposati da dieci anni, sono benestanti, hanno due figli e filano d'amore e d'accordo) per svelare progressivamente l'inconsistenza e l'illusorietà di questo equilibrio. Il regista invita lo spettatore – voyeur privilegiato dell'indagine introspettiva – a guardare al di là della superficie delle cose (al di là cioè dell'immagine "ufficiale" che i due coniugi offrono di sé nella sequenza iniziale, in occasione dell'intervista concessa a un rotocalco femminile), sotto le pieghe di un rapporto che, dopo un decennio, è come un corpo a prima vista florido e sano, in realtà internamente roso dal cancro. Lentamente, senza farsi prendere dall'ansia di raccontare, o peggio ancora di spiegare, egli fa emergere nei due protagonisti, attraverso un'implacabile analisi comportamentale, condotta con l'abilità (e la freddezza) di un entomologo, paure, insicurezze e insoddisfazioni reciproche. John e Marianne, pur posti di fronte a situazioni "perturbanti" (la scoperta di Marianne di essere incinta, la routine quotidiana avvertita come costrizione, il calo del desiderio sessuale), fanno finta di niente, accantonano inconsciamente le difficoltà (quella che Bergman chiama, con il suo consueto spirito di geniale osservatore della realtà, "l'arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto"), cercano insomma di non pensarci (un po' come capita a chi – e tra questi vi sono anche le persone più colte ed istruite – rifiuta irrazionalmente l'idea della morte), e anche quando i problemi rimossi si presentano inevitabilmente davanti ai loro occhi (la visita della coppia di amici in crisi, l'anziana cliente che vuole divorziare perché nel suo matrimonio non c'è amore) ritengono che a loro "non può succedere", un po' considerandosi come l'eccezione che conferma la regola. Ingenuamente, perché i problemi fatalmente esplodono non appena l'impressione di normalità della vita coniugale si rivela una autosuggestione (ovvero, con le parole di Johan, una "ritualizzazione della sicurezza", dovuta più alle abitudini tranquillizzanti e ai feticci della società del benessere che a un solido convincimento interiore).
"Scene da un matrimonio", diviso in sei episodi che coprono un arco di tempo di dieci anni, ha una struttura inequivocabilmente geometrica (e in un certo senso anche musicale): da una situazione iniziale di equilibrio instabile (nel senso visto più sopra) segue la sua brusca e inaspettata rottura (Johan confessa alla moglie di avere un'amante e la abbandona, sconvolta e crudelmente ferita nell'amor proprio); quindi, dopo sporadici incontri che rivelano in entrambi una profonda angoscia (inutilmente nascosta sotto una maschera di compiaciuta soddisfazione o di cinismo), si assiste al progressivo rovesciamento dei ruoli (ora è Marianne ad essere emotivamente più forte e a permettersi di respingere con indifferenza i goffi tentativi di riconciliazione di Johan), per approdare infine a una situazione di equilibrio simmetrica (e diametralmente opposta) a quella di partenza, che dimostra, più di ogni altra considerazione, come la coppia possa esistere e funzionare solo come antidoto alla solitudine e alla paura della morte, come tacito patto dettato dal reciproco interesse (e possibilmente fuori del matrimonio, visto che i due protagonisti, ormai divorziati e risposati, riescono a ritrovare insieme la pace – ma l'incubo notturno di Marianne rende meno sicura questa conclusione – solo come amici-amanti). Il film non nasconde la sua intenzione, in qualche modo pedagogica, di voler essere un caustico e strindberghiano pamphlet contro l'istituto del matrimonio e contemporaneamente un atto di fede nei confronti dell'amore, ma, soprattutto negli ultimi tre episodi, assurge anche ad autonoma riflessione esistenziale (la quale peraltro, pur se magari di striscio, non manca mai nelle opere di Bergman), con risvolti neppur troppo velatamente sociologici. E' soprattutto il quarto episodio ("Valle di lacrime") ad allargare il campo di osservazione del regista dall'angusto spazio della coppia (che rimane comunque nettamente privilegiato) a quello più ampio dell'inconoscibilità dell'io, della condizione umana (il monologo-confessione di Johan sulla solitudine ontologica dell'individuo) e del rapporto con gli altri (i condizionamenti che l'ambiente sociale e familiare riverberano sulla personalità in formazione del bambino sono al centro della rievocazione memorialistica dell'infanzia da parte di Marianne: "Nel mondo ben protetto in cui Johan ed io abbiamo vissuto con tanta egoistica leggerezza è implicita una componente di crudeltà e brutalità che mi spaventa sempre più quando ci ripenso. La maggiore sicurezza che si acquisisce viene pagata a caro prezzo, e cioè con l'accettazione dell'incessante distruzione della propria personalità. E' facile snaturare fin dall'inizio i tentativi di autodifesa di una bambina in tenera età; nel mio caso avvenne con iniezioni di un veleno la cui efficacia è garantita al cento per cento: la coscienza sporca").
La sequenza in cui Marianne legge il diario al marito (che peraltro è la più bella del film, con quelle vecchie fotografie che scorrono lentamente sullo schermo, creando un effetto di nostalgica rievocazione parzialmente in contrasto con le parole pronunciate fuori campo) mi sembra sancire in maniera inoppugnabile il predominio che in questa pellicola la pagina scritta ha sull'immagine filmica. A differenza di altri film realizzati per il piccolo schermo (un esempio su tutti, "Il rito"), dove Bergman era riuscito a creare delle pregevolissime composizioni plastiche e figurative (giochi di luce, personaggi posti su più piani, ecc.), "Scene da un matrimonio" rivela troppo scopertamente la sua origine televisiva. Lo stile è estremamente semplice ed elementare (macchina da presa immobile, assenza di musica, interi episodi girati in un unico ambiente), senza per contro riuscire a raggiungere il pathos e la stilizzazione dei migliori kammerspielfilm, le inquadrature sono ovvie (primi piani o piani americani dei personaggi da soli, cinepresa alle spalle del personaggio che ascolta, totali con i due personaggi affiancati o ripresi di profilo) e raramente vi sono invenzioni visive (un uso intelligente del fuori campo è fatto solo in occasione della lettura del diario da parte di Marianne, laddove alla fine della sequenza scopriamo – effetto a comprensione ritardata – che Johan si è addormentato e non ha ascoltato nulla di quanto lei ha letto). Alla lunga affiora persino l'impressione di una sovrabbondanza di dialogo (anche se la sceneggiatura è un gioiello di analisi psicologica), ma ciò che mi sembra determinante nel negare al film un interesse e un valore autenticamente cinematografici è il fatto che esso potrebbe funzionare così com'è, senza particolari aggiustamenti, anche come pièce teatrale o persino come trasmissione radiofonica (e con questo non voglio togliere nulla a Liv Ullmann e a Erland Josephson, la cui bravura nel rendere coi loro volti le più diverse e sottili sfumature psicologiche – più la prima che il secondo, ma ciò dipende a mio avviso dalla maggiore complessità del personaggio femminile – è a dir poco strabiliante).