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TABU' regia di Friedrich Wilhelm Murnau, Robert J. Flaherty

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kafka62     8 / 10  18/04/2018 09:42:08Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
A distanza di quasi un decennio dalla realizzazione di "Nosferatu", Murnau ritorna alle scenografie naturali e, dopo tante pellicole girate (peraltro in maniera assai geniale) in studio, sceglie di ambientare in un'isola dei mari del Sud la struggente storia d'amore e di morte tra Matahi e Reri. "Tabù", che si è avvalso dell'iniziale collaborazione di Flaherty (suoi sono il soggetto e una serie di materiali fotografici e cinematografici), è in realtà ascrivibile in toto al solo Murnau. Questa constatazione permette già in partenza di capire cosa il film non è: "Tabù" non è anzitutto un film-documentario, in quanto l'etnologia non sembra essere tra i principali interessi del regista tedesco; non è neppure un film esotico e folcloristico (anche se le prime sequenze – dall'estatica presentazione dell'eroe alla ludica scena dei laghetti – indurrebbe a crederlo), dal momento che le immagini da cartolina turistica rimangono sullo sfondo, del tutto marginali rispetto ad altre più fondamentali tematiche; a maggior ragione non è un'apologia del mito del "paradiso perduto" da mettere in contrapposizione alla decadente civiltà occidentale, perché Murnau è pur sempre un artista che, sia pure in maniera problematica e non convenzionale, lavora all'interno di principi e valori intimamente borghesi.
In realtà "Tabù" è un'opera dicotomica, caratterizzata dalla sovrapposizione di due distinti climi narrativi. L'idilliaco quadretto iniziale risulta ad esempio estremamente efficace nell'introdurre per contrasto l'elemento drammatico costituito dall'interdetto che spezzerà l'amore tra i due giovani protagonisti. Allo stesso modo le dionisiache danze organizzate in onore di Reri (nelle quali si esprime tutta l'energia e l'ebbrezza di vita degli indigeni dell'isola) si integrano perfettamente con la tragica fissità di Matahi, emarginato dalla terribile forza del divieto sacrale di Hitu. Sovrapposizione di atmosfere e di climax, quindi, ma non solo: in "Tabù", a confermare la sua bidimensionalità, c'è anche la contrapposizione degli ambienti (l'isola primitiva e l'isola governata dalle leggi dei bianchi), l'alternanza dei registri narrativi (l'elemento avventuroso-favolistico della spedizione notturna di Matahi si mescola con l'elemento melodrammatico della contemporanea partenza di Reri), la creazione di parallelismi simbolici (lo squalo che sta a guardia della "perla nera" è l'equivalente mitologico di Hitu, e uccidendolo Matahi esprime una prometeica ribellione a tutte le forme di costrizione religiosa e di conformismo socio-culturale).
In molte parti del film è fin troppo facile intravedere un discorso anti-capitalistico e anti-occidentale: il recupero del mito del buon selvaggio, del primitivo felice, si accompagna infatti alla polemica contro il mondo "civilizzato" retto dalle spietate leggi economiche (si confronti la differenza che passa tra le due feste danzanti). Questa prospettiva, anche se non è affatto falsa, risulta però fuorviante qualora venga assunta come unico parametro critico della pellicola. "Tabù" è infatti un film che trascende un preciso contesto storico, geografico e culturale, per assumere invece una connotazione metafisica. Il suo nucleo centrale è il conflitto tra l'individuo e la Regola, e le conseguenze che derivano dalla sua trasgressione. La Regola è tanto quella magico-religiosa di Hitu quanto quella, altrettanto implacabile, del capitalismo moderno, ma, se si astrae dai dati più ovvi e riconoscibili, essa è anche, e soprattutto, una legge trascendente che si manifesta nel destino dell'uomo. Matahi e Reri sono sì vittima del vecchio sacerdote-stregone e degli strozzini cinesi, ma ancor di più lo sono della fatalità, di quella fatalità che, sia pure in altre forme, era già stata una costante di altri film di Murnau. Inesorabile e impietoso, il destino si accanisce contro l'uomo dopo averlo illuso, lo insegue, lo bracca, non gli dà tregua, lo soffoca e alla fine lo costringe a una resa impotente e straziante. La morte di Matahi, inghiottito da un mare troppo grande per le sue esili forze, diventa in questo contesto il simbolo dell'irrisorietà del tentativo dell'uomo di opporsi alle leggi incomprensibili e spietate del Fato.
Il vecchio Hitu è chiaramente (per la sua valenza sacrale, per il fatto che è lui a imporre il tabù, per le sue apparizioni magico-esoteriche davanti alla capanna dei due giovani amanti, per il gesto finale che condanna alla definitiva sconfitta l'estremo tentativo di Matahi di raggiungere Reri) la proiezione materiale del destino come lo si è delineato più sopra. Ma anche altri simboli compaiono nel film: lo squalo è il corrispondente mitico-mitologico di un'entità sovrannaturale; il fiore di ibisco e le perle che cadono nella sabbia sono l'emblema dell'indissolubilità della coppia e insieme della sconfitta dei sentimenti alle prese con la prosaicità della realtà.
Queste poche e scarne osservazioni dovrebbero essere sufficienti per comprendere che "Tabù" è un film caratterizzato da un notevolissimo sforzo di ricerca linguistico-espressiva. Basti pensare a come l'elemento folclorico-pittoresco viene trasceso da una costruzione geometrico-spaziale dell'inquadratura, capace di creare validi effetti ritmici (l'immagine di Matahi che pagaia in direzione contraria a quella dei suoi compagni) o addirittura di alterare l'apparenza stessa (la porta della capanna, in cui fanno la loro apparizione il capitano della nave e per due volte Hitu, anziché essere apertura su un mondo libero e arioso, sembra chiudere l'universo dei due protagonisti in uno spazio angusto e soffocante). Grande sperimentatore della forma cinematografica, Murnau conduce la semplicità della storia e la naturale fotogenia di uomini e cose verso esiti artistici per nulla scontati. Tra i molti meriti del film si possono annoverare l'assenza pressoché totale di didascalie (le poche spiegazioni scritte derivano da pergamene o diari di bordo), l'efficacissimo montaggio alternato della sequenza finale, la fotografia di Floyd Crosby (che, da grande documentarista qual è, si sforza di rispettare le esigenze di un realismo quasi da reportage senza per questo appiattire il lirismo delle immagini di Murnau), la stilizzazione del contesto ambientale al fine di farne risaltare il sottofondo simbolico e universale, e infine i richiami non casuali alla pittura di Gauguin.