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MIRACOLO A LE HAVRE regia di Aki Kaurismaki

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     8 / 10  02/12/2011 00:58:32Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Credetemi, "Miracolo a Le Havre" non ha proprio alcun punto di contatto con F. Capra (quella visione proletaria-borghese della solidarietà era e resta tipicamente made in Usa), semmai un felicissimo revival di un certo realismo francese, che ha Duvivier (mai abbastanza capìto), Renè Clair, Renoir e Marcel Carnè fra i suoi maggiori epigoni. Poi spunta Jean Pierre Leaud (che comunque era già apparso nei film di K.) ed è facile giocarsi la partita con la Nouvelle Vague. Magari, che so, per una certa freddezza dove è facile stigmatizzare le emozioni lasciando il decorso (e i groppi in gola) allo spettatore. Certi momenti alienanti e vagamente retrò forse escono dalle pagine struggenti di La lotta per la vita di Dickens, ma non è detto che siano un difetto. Kaurismaki è e resta uno dei più efficaci cantori della realtà contemporanea, e uno dei più intelligenti cineasti europei delle ultime generazioni.
Sono pennellate "bohemien" che a volte mettono a disagio, per l'ironia fuori posto (la battuta sul fratello albino per esempio), per l'apparente scarsa interazione con personaggi (volutamente) statici a cui lo spettatore reclama il diritto (ah quel diritto che è poi un clichè) di commuovere e commuoversi. Non c'è tutto questo scomporsi - emblematico in questo senso quel finale SUPERLATIVO - ma non c'è nemmeno del buonismo gratuìto. K. aleggia mirabilmente creando un dipinto contemporaneo che guarda al passato (cinematograficamente), ma riesce tuttavia a infondere tutta l'amarezza delle parole, o delle immagini. Non è certo il suo miglior film, ma è ricco di momenti straordinari, e non è poco. Una sequenza su tutti: il protagonista quando parte per Calais e si unisce a quel gruppo di immigrati in attesa di una specie di destino. Un personaggio, ancora: un vietnamita che per avere la cittadinanza ha dovuto cambiare identità.
E con una figura di commissario degna di un romanzo di Simenon, che attraversa doveri stigmatici e autocoscienza nello stesso schema di pensieri